martedì 23 settembre 2014

Racconti Dimenticati - Un alchimista

Racconti Dimenticati

Un Alchimista


“Ebbene, straniero, cosa vi porta in questo luogo di ristoro?” l'elfo dietro il bancone stava pulendo il boccale di birra che gli era appena stato restituito da quell'uomo dall'aria sfatta che continuava ad ordinare da bere.
L'uomo aveva gli occhi arrossati degli insonni ma sedeva con una certa compostezza dignitosa anche se un po' forzata, sembrava sull'orlo di un tracollo. I suoi abiti erano puliti e ben ordinati e contrastavano bizzarramente con la sua capigliatura corta e priva di garbo. Reggeva il boccale con la mano destra che talora tremava nel portare il liquore alle labbra ed il suo sguardo oscillava fra una fermezza ed intensità degni d'un grande avventuriero ed un guizzare incerto e spaventato che si presentava ogni qualvolta un'ombra si muovesse accanto a lui. In quei momenti anche il resto del corpo sembrava tendersi, pronto a qualche scatto di follia, al punto che un occhio disattento poteva facilmente attribuire quelle due immagini a persone differenti. Effettivamente l'impressione complessiva emanata da quell'individuo era di duplicità, sembrava un vaso rotto tenuto assieme da lacci di cuoio usurati e pronti a rompersi alla prima occasione.
“Buon oste, come dite voi, ciò che cerco è proprio ristoro. I miei nervi sono irreparabilmente scossi e necessito di un lungo periodo di riposo perché possa dimenticare gli orrori cui ho assistito negli ultimi tempi” rispose, persino la sua voce sembrava rispecchiare lo stato precario in cui si trovava, passando occasionalmente da un timbro caldo e profondo ad una stridula raucedine.
“Avete scelto il luogo giusto messere, la corte di Re Tinwe Linto è il luogo dove i viaggiatori di tutti i reami possono riposarsi e rinfrancarsi fra un viaggio e un’avventura, eppure voi siete qui da almeno venti giorni ed ho potuto notare che siete sempre rimasto in disparte a bere. Non vi siete mai unito alle danze, non avete mai scambiato parola con gli altri avventori. Talvolta non scendete nemmeno nella sala comune e trascorrete intere giornate in camera vostra” disse l'elfo distrattamente mentre cominciò a strofinare il boccale ostentando una concentrazione ed accuratezza tali che avrebbero fatto pensare stesse per servirlo ad un re.
Con una nota di divertimento l'uomo rispose “uomini, elfi o nani, gli osti sembrano essere tutti uguali, quasi fossero una razza a parte. Credevo che a Valis Lobelas si venisse per riposare e non per essere sorvegliati”.
“Teniamo a mantenere una certa fama” rispose l'elfo, piccato “e quando ci accorgiamo di un cliente affranto che non mostra segni di miglioramento, ci preoccupiamo di scoprire cosa non lo aggrada”.
“Vi assicuro che non vi è alcuna manchevolezza nel vostro servizio” si affrettò a chiarire l'uomo, poi con un tono di rammarico “e se vi è qualcosa di manchevole, qui, quello sono io”.
“Cos'è che vi cruccia?”.
“Non ho il cuore di dirvelo”.
L'elfo posò allora risolutamente il boccale che stava pulendo e tolse di mano all'uomo quello ancor mezzo pieno di birra, poi prese due bicchierini da grappa ed una bottiglia piena d'un liquore giallino dalle mensole del bancone, posò i bicchierini e li riempì.
“Bevete questo” disse “senza storie”.
L'uomo rimase stupito dalla reazione inaspettata dell'elfo e quando ne incrociò lo sguardo, lesse una risolutezza con la quale evidentemente sentì di non poter combattere, poiché si rassegnò a bere il suo bicchiere.
Un calore confortevole, quasi rassicurante, si spanse nella gola dell'uomo che rimase stupito del sapore zuccherino di quel liquore, tanto che si domandò se non si trattasse di una pozione alchemica uscita da qualche laboratorio. Ma sarebbe stata una pozione troppo maledettamente buona.
“Che cos'è?” domandò infine, cedendo alla curiosità.
“Un cordiale a base di succo di mela; i frutti provengono da una radura nascosta nella foresta Kalia, un luogo che si dice solo chi è in pericolo di vita sia in grado di trovare”.
“Se è così, come fate ad averne abbastanza da produrci una bevanda?” chiese furbescamente l'uomo e l'elfo rispose con un sorrisetto.
“Suvvia, ora raccontatemi di voi. Chi siete e da dove venite?”
L'uomo fece qualche altro sorso, prima di rispondere. Nel frattempo il suo viso si era fatto più colorito.
“Mi chiamo Salamdar Dervishi, porto il nome di mio nonno, un mercante sadiano che si era stabilito a Daconia. Comunque non ho mai vissuto al sud, mio padre era scappato a Wankrurneel da ragazzo, dove si era messo nei guai con la figlia di un borghesotto del posto. Per questo non ho mai conosciuto mia madre e sono vissuto a Ranespel come un ladruncolo. Comunque appena ho raggiunto l'età per andargli contro senza buscarle, l'ho piantato in asso, sono scappato e mi sono arruolato nelle Tuniche Nere. Ne sono uscito cinque anni fa, quando il Generale si è reso conto che gli ero più utile come spia ed esploratore che come soldato effettivo”
“Dunque siete anche esperto di magia”
“Ne so qualcosa! Ma non ho mai voluto approfondire granché. I maghi viaggiano fin troppo con la testa, sarei più un alchimista se m'interessasse sfacchinare, se proprio devo usare incantesimi preferisco conservare le energie ed utilizzare bacchette, anelli, pozioni, polveri ed altre sostanze o cerchi impressi su pergamene, tutta roba già bell'e pronta per l'uso, qualche trucchetto me lo so anche preparare da me” concludendo con l’ultimo sorso.
“Mi sembra giusto”.
Salamdar si era fatto servire un altro bicchiere di cordiale e ci si stava avventando.
“Ebbene, continuate, cosa vi ha portato qui?”
Arrestò il bicchiere a mezz'aria, quasi versando qualche goccia di liquore.
“Circa un anno fa, il Generale mi ha mandato in missione oltreoceano. Ho visto cose orribili. Al mio ritorno sono venuto direttamente qui. Non ho la forza per tornare e fare rapporto”.
“Se continuate a restare solo con i vostri ricordi, rischiate di non trovare mai più questa forza”.
“E come potrei mai fare?”
“Immergetevi totalmente in essi, non cercate di sfuggir loro”.
Salamdar guardò l'elfo in tralice, con aria sospetta “Chi vi dice che io li fugga?”
“Fuggire non è ciò che avete fatto da quando siete tornato dalla vostra missione? Prima dal vostro Generale ed ora che siete qui, dagli altri avventori e da me. Ma non potrà durare ancora a lungo e lo sapete bene”.
L'uomo fissò l'elfo per alcuni minuti, poi chinò lo sguardo, sorseggiò ancora del liquore come per farsi forza e disse “beh, cominciò tutto quando il generale mi convocò...”



“Non era la prima volta che il Generale delle Tuniche Nere decideva di avvalersi dei miei servigi in terre straniere, specialmente considerando che il mio viso era fin troppo conosciuto in certi ambienti di Ranespel, ma non mi era mai capitato d’essere spedito oltreoceano.
–Abbiamo bisogno che tu vada sul Nuovo Continente– mi disse con brutale semplicità – la tua missione è ovviamente segreta e non ufficiale quindi non c’è bisogno che ti dica come dovrai muoverti–. E non c’era bisogno davvero. 'Missione segreta non ufficiale' è un modo per dire pochi soldi e un viaggio che peraltro sarà scomodo e noioso.
–La missione è molto semplice: è già un anno, ormai, che il nostro ambasciatore ad Ofrald non invia notizie ma la cosa di per se non è allarmante. Ad essere sconveniente è il fatto che  i suoi rapporti negli anni precedenti non giustificassero la sua premura a non essere richiamato in patria. Sia ben chiaro, di motivazioni ce ne ha addotte a volontà, ma se questo può bastare a placare la sete di burocrazia del Consiglio, non basta a convincere me. Ciò che voglio da te è che tu vada a dare un’occhiata laggiù per capire di quali affari il nostro ambasciatore non ci ha parlato–.
–Un modo come un altro per dire che dopo i diverbi che ho avuto a Rhone, è meglio se mi tolgo di torno per un po’?–.
–Vedila come vuoi, non nego che averti qui potrebbe metterci in imbarazzo con i rhoniani, ma è anche vero che ho bisogno di qualcuno laggiù. In ogni caso il tuo viaggio sarà lungo ed ho tutta una serie di piccole commissioni da assegnarti lungo la strada–.
Per farla breve il mio calendario si riempì di scadenze. Mi diede una decade di tempo per prepararmi e salutare gli amici. Quest’ultima cosa la feci con diligente rapidità.
Partii, allora, ma non da solo. Nel frattempo ero riuscito a convincere il Generale a farmi usare una copertura e ne approfittai sino in fondo. Da quel momento ero un mercante di pozioni in viaggio d’affari. Con ben due servi. E una serva.
Il Nuovo Continente mi aspettava. Che nome stupido da dare ad una terra antica quanto la nostra e popolata da civiltà di tutto rispetto come gli shogan. Feci un sorriso al pensiero di un cartografo che, indispettito dal non poter imporre i suoi nomi alle terre dell’est, si fosse vendicato riassumendo tutta la loro storia e mettendola al secondo posto.
Ad ogni modo il mio equipaggiamento di sopravvivenza coincideva per larga misura con le pozioni che avrei dovuto vendere al mercato di Daconia e che alla fine vendetti davvero, tuttavia mi ero riservato alcuni oggetti di particolare valore. Avevo con me una serie di cerchi alchemici su pergamena, ciascuno adatto ad un particolare utilizzo, tutti molto utili per lo spionaggio ed uno per le arti amatorie che in caso di estrema necessità avrei potuto rifilare a qualche vecchio con troppi soldi nelle tasche e poca sostanza fra le gambe. Il mantello magico era intessuto con capelli di non so quale spirito notturno ed aveva la virtù di farmi letteralmente sparire se usato di notte, che fosse vero o meno, in passato non ho mai potuto lamentarmene. Alla cintura tenevo un vero e proprio tesoro, una verga di ferro azzurro del fencedhor con un diamante all’estremità che teneva accumulata una forte carica elettrica che poteva essere scaricata parzialmente od integralmente su un bersaglio, un’arma di questo genere poteva persino uccidere un orco con un solo colpo. Dovevo tenerla avvolta in un fodero di cuoio e adoperarla utilizzando dei guanti appositi dal momento che funzionava a contatto ma avevo letto da qualche parte che se mi fossi addentrato nei mondi spirituali, avrei potuto utilizzarla anche a distanza.
Arrivare a Daconia fu semplice. Li' mi toccarono quelle commissioni di cui parlava il Generale.
Andai a visitare un paio di senatori della repubblica, uomini molto affabili come si confà a quel genere di politicanti che trae il proprio potere dal numero di persone che riesce ad abbindolare. Uno di loro mi fece anche velatamente delle offerte di lavoro che io non rifiutai ne' accettai.
A Daconia mi stupii di trovare molte persone con gli stessi lineamenti da sangue misto come i miei. Era evidente dalla scarsa considerazione per noi mezzosangue, che fosse un paese perennemente in guerra con i sadiani, ma a quanto vedevo, si trattava di qualcosa che non toccava il popolo e la vita quotidiana più di quanto può farlo un saltuario arruolamento forzato. Forse è perché i mercanti della città non erano nemmeno granché toccati da questa sorte e comunque ci vivevano di scambi con la Sadia. Mi domandai allora cosa sarebbe successo se mi fossi addentrato nei villaggi sparsi sul territorio interno o lungo le sponde del lago Kentar, fatti di contadini, boscaioli, pescatori o più in generale da quella fetta di popolazione rurale che solitamente combatte le guerre iniziate dai ricchi cittadini. Alcune fantasie spensero rapidamente la mia curiosità, ricordandomi la mia missione.
L'episodio più curioso fu quando portai alcune comunicazioni ad un locandiere del quartiere mercantile che sospettai essere in qualche modo legato alla malavita locale; aveva al suo servizio un omino bizzarro, alto fino alle mie costole, con occhi sottili e lineamenti delicati. Aveva il modo di fare di un bambino, ma mi dissero avesse una trentina d'anni e che fosse stato concepito per magia dagli elfi della foresta; capii subito il fraintendimento, non avendo mai visto gli elfi d’occidente, chiamavano in quel modo i folletti della foresta. Chiesi a loro informazioni sul nuovo continente e mi dissero che chi tornava da laggiù, portava addosso i segni di qualche malessere dell’animo. Sguardi spenti, silenzio chiuso, disinteresse, spesso una rabbia cieca pervadeva i più estrosi e soprattutto a sentirli parlare sembrava che al mondo tutto fosse inutile. Ma poi inutile a che?
In ogni caso questo locandiere mi mise in contatto con il capitano della nave che mi avrebbe portato sul Nuovo Continente. Un uomo tarchiato, robusto e con due baffoni bianchi e macchiati del giallo dei fumatori di pipa. Tutto sommato dava l'impressione di un tipo affidabile, solido e la sua voce non tradiva le aspettative.
–Il viaggio sarà lungo– mi disse un po' rauco, sembrava si fosse appena rimesso da una influenza – e scomodo– chissà come, me l'aspettavo – ma abbastanza sicuro. Partiremo assieme ad altre navi commerciali e saremo scortati per tenere lontani i pirati sadiani. Non dovrebbero essercene perché è appena finita una guerra in favore loro e sono tutti allegri e sazi. Adesso devono sbeffeggiarci e finché Daconia non si sarà leccata le ferite a sufficienza non ricominceranno i conflitti–.
La solita politica, insomma, la storia che si ripete. Gli chiesi piuttosto di parlarmi di Ofrald e lui fece una risata divertita.
–Di Ofrald posso dirti che la prima impressione è quasi sempre quella giusta, anche perché per alcuni coincide con l'ultima, ti posso anticipare che la chiamano tutti “La fogna dell'est”–.
Molto interessante, pensai, cosa può mai spingere l'ambasciatore di un paese pulito, colto e civilizzato come Ranespel a mettere radici nella “Fogna dell'est”? Forse il Generale non voleva solo allontanarmi per qualche tempo, dopotutto.

Come promesso, il viaggio si rivelò scomodo, non quanto alcuni altri vissuti in passato, ma decisamente più lungo. Furono quaranta o cinquanta giorni, inframezzate dall'approdo in alcune città intermedie. Quando raggiungemmo Daltore ci eravamo lasciati alle spalle il cosiddetto mar Fencedath, che era più che altro un enorme golfo, e superammo i confini di Daconia. Da lì procedemmo verso nord est e ci fermammo a Nai, un piccolo villaggio fortificato su di un'isola grande quanto un paio di piccoli regni. Mi divertii a vedere così tanti sadiani attorno a me. La loro pelle ambrata, quasi nera era dieci volte la mia, mi facevano sentire un bianco fencedhoriano. I loro tratti esotici mi stupivano. Non è che non li avessi mai visti prima, ma un conto era vederli circondati da bianchi ed un conto essere il bianco circondato da loro, tutto sommato mi piacque quella ventata di novità. Devo ammettere che il mondo è un posto grande e variegato.
Da quel momento iniziò la tappa più lunga del viaggio, fino ad Iek, altro villaggio sorto su una grande isola vulcanica, che aveva più l'aria di essere una grossa stazione di posta, che un centro abitato.
La vera sorpresa fu Antral, una grande città, capitale di un fiorente impero commerciale, sorta su un arcipelago. Era composta da tante isolette a breve distanza fra loro, congiunte da moltissimi ponti e costeggiate da canali navigabili con imbarcazioni apposite. Nella cinta muraria esterna, si trattava di ponti di pietra fortificati dai quali era possibile calare grate di ferro che si conficcavano nel basso fondale sabbioso dell'arcipelago all'interno del quale solo delle chiatte o delle scialuppe potevano addentrarsi; nella parte interna erano eleganti ponti di congiunzione, quasi sempre di legno e capaci di sollevarsi all'occorrenza. L'ingresso principale della città era bellissimo, un ponte particolarmente alto e maestoso che si apriva ad una laguna di svariate centinaia di metri quadrati al cui centro spuntava direttamente dall'acqua una stele altissima. Su quella stele vi era scolpito un bassorilievo che vi si avvolgeva a nastro arrivando fino in cima. Non so dire cosa vi fosse rappresentato, ma mi dissero che era un monumento magico, dedicato al mare. Non a Velomé, il signore degli spiriti dell'acqua, ma al mare stesso. Capii dalle alghe che vi crescevano alla base, di quanto il livello del mare fosse in grado di alzarsi con la marea e fui stupito che fosse così poco. Chissà se quella città aveva mai visto una tempesta, un uragano di quelli di cui parlano a voce bassa e spaventata i marinai o le onde anomale che seguono i terremoti e che a Daconia chiamano Velomere. Non ebbi il tempo di scoprirlo che eravamo già ripartiti.

Giungere ad Ofrald, qualche giorno dopo, mi fece una strana impressione. In parte capii quello che aveva voluto dirmi il capitano Nigel quando eravamo a Daconia, e i velati commenti nervosi dei marinai, mano mano che ci avvicinavamo.
La prima cosa che ti colpisce, di Ofrald, è la puzza. È un che' di rancido, diverso dai lezzi tipici delle grandi città in cui uomini ed animali convivono e talvolta dividono gli spazi. Quelle erano puzze “vive”, mentre Ofrald ti dava l'impressione del latte che quando si corrompe diventa acido o della carne bruciata, di quegli odori, insomma, a cui ti sembra di non poterti mai abituare.
Col tempo, capii che quell'impressione era generalizzabile a molte altre cose.
I mendicanti onnipresenti sembravano essersi radunati ad Ofrald da tutto il mondo, ma nei loro occhi non ci leggevi la furbizia o la recitazione o la speranza o addirittura la saggezza che poteva capitarti altrove, sembravano tutti abbandonati alla loro condizione, avviliti. Ad alcuni diedi del denaro ma non ringraziarono, un paio di loro sembrarono non accorgersene nemmeno e quando feci il gesto di sottrarglielo; ne ebbi conferma quando lo feci per davvero.
La gente sembrava spaventata e diffidente, nessuno guardava gli altri negli occhi e se qualcuno veniva sorpreso a farlo, subito abbassava lo sguardo e proseguiva per la sua strada. Ovviamente questo succede anche altrove ed è un fenomeno diffuso nelle grandi città, in cui la vita a strettissimo contatto con altre persone, ti porta a cercare l’intimità nei pensieri, ma qui sembrava esasperato oltre misura. Più che una ricerca di intimità sembrava che si vivesse in una costante, paranoica paura e sfiducia reciproca, come se chiunque fosse pronto ad accoltellarti per un nonnulla.
Anche il caos della città era diverso che altrove. Una certa sciattezza l'avevo vista anche a Daconia ed in generale in tutte le città calde del sud, dove la gente irrequieta e piena d'energia sembrava industriarsi per trovare il proprio modo di fare le cose, anche se a volte sembrava tutto un po' affrettato o dannoso. Qui, al contrario, regnava l'approssimazione fine a se stessa.
Ad un certo punto cominciai a pensare di essermi immerso in qualche strato del mondo degli spiriti o che quello fosse tutto un sogno, col senno di poi mi rendo conto di non essermi allontanato troppo dalla realtà, di qualunque realtà si parli.

I primi giorni li trascorsi così guardandomi intorno. Presi una stanza in una locanda che era una topaia, mi fece quasi rimpiangere la nave, e costava anche troppo!
Cercai di scambiare qualche parola con la gente del posto, in un modo o nell'altro dovevo ambientarmi e capire come muovermi al meglio, ma soprattutto, quali piedi era meglio non pestare. Non subito, almeno.
In mezzo alle tante notizie provenienti dal regno degli Shogan, dalle due contee, ed altri mille posti inutili, un nome cominciò ad emergere spesso dalle conversazioni: Cancrelioth. Mi ci volle un po' per capire che non era una persona o una malattia, ma un posto. Un posto da cui arrivavano delle persone. Persone che parevano malate, da come erano descritte.
Certi uomini dall'aria strana si diceva venissero da Cancrelioth, avevano quasi tutti l'aria truce dei peggiori tagliagole ed imparai a riconoscerli ed evitarli.
Una sera ebbi modo di interrogarne uno in un vicolo scuro nel quale mi aveva scambiato per una potenziale vittima. In verità mi assalirono in due. Avevo cenato in una bettola nel quartiere degli artigiani per avvicinare questo falegname che aveva lavorato per l'ambasciatore. Questo mi disse cose interessati su certe forniture che si era fatto fare il mio uomo, ma soltanto in seguito avrei potuto ricollegare il tutto e sul momento venni distratto. I due energumeni mi adocchiarono dopo una mezz'oretta che erano entrati per bere. Li vidi con la coda dell'occhio che si sgomitavano e lanciavano occhiate d'intesa: la mia pelle mi aveva tradito. O forse no. Decisi di approfittarne.
Lasciai il mio commensale dopo un paio d'ore di chiacchiere inutili fatte giusto per innervosire i miei inseguitori, poi pagai con una moneta d'argento, lasciando anche una bella mancia per invogliarli nei loro intenti e mi alzai dal tavolo fingendo di barcollare. Andai verso l'uscita badando bene ai loro movimenti, mi infilai il mantello ed uscii.
I miei nuovi amici mi seguirono baldanzosi, con quella sicumera di chi è abituato a fare il gradasso sapendo che non verrà fermato. Chi ero io per deluderli? Mi guardai indietro, feci una faccia spaventata e accelerai il passo infilandomi nel vicolo più vicino. Ebbi quei pochi istanti di vantaggio necessari a calarmi il cappuccio sulla testa per confondermi nell'ombra appiattendomi contro un muro e infilarmi i guanti di cuoio.
Quando arrivarono e non mi videro rimasero interdetti ed io agii. Piantai la bacchetta fra le scapole del più grosso dei due, da sopra i vestiti per non ucciderlo, non subito almeno, e questo stramazzò al suolo, fulminato. L'altro sferrò qualche fendente con una piccola daga, ma a vuoto perché in quel buio ero poco meno di una sagoma scura per lui. Non mi ci volle molto per rifilargli un calcio su un ginocchio e un bel pugno ai reni.
Passai allora ad interrogarlo. A quanto mi disse nessuno di loro era meno ofraldiano degli altri, l'unica differenza era che ogni tanto si spingevano lungo la scarpata nera, la strada che congiungeva Ofrald e Cancrelioth, ed avevano rapporti con alcune persone che dicevano di venire da li'. Non volle dirmi nulla di quelle persone e la minaccia di evirazione non sembrò sortire effetti, però mi disse che il Primo Conte e la corte dei conti di Ofrald avevano sicuramente dei contatti molto stretti con il governo di Cancrelioth.
–Non ho idea di che affari possano fare i porci del palazzo – mi di disse – con gli uomini neri – così chiamavano la gente di laggiù – ma di sicuro non è nulla di divertente, ogni tanto partono dei carri pieni di galeotti verso la scarpata nera, ma non sono mai tornati indietro. Nemmeno le guardie che li portavano. Certe altre volte abbiamo visto partire dei carri chiusi e io ci scommetto che dentro non c'erano galeotti. Nemmeno degli uomini, se te lo devo dire... o degli adulti. Ma tanto nessuno te lo dirà mai, che li vedono, meglio far finta di niente–. So distinguere una balla da una verità, di solito, vado ad intuito, ed il mio intuito mi disse che non stava mentendo. Mi chiesi chi era più apprezzabile: la brava gente che faceva finta di niente oppure questo avanzo di galera che la merda la guardava e ci camminava dentro? In realtà non era la prima volta che me lo domandavo e con tutta sincerità, non sono mai riuscito a trovare una risposta soddisfacente. Mi saltò alla mente, così senza motivo, la frase che disse Ark Nejo quando abbandonò la sua scuola di magia e si ritirò a vita privata: “Tutto scorre”.
Denudai i due simpaticoni e li lasciai li', legati con i loro stessi abiti tagliuzzati e adibiti a corde. Me ne andai con diversi interrogativi ma in ogni caso ora avevo una pista.
Era evidente che c'era un collegamento fra il governo di Ofrald e quello di Cancrelioth, qualcosa che non si diceva in giro, qualcosa di nascosto. E nascosto fra le righe dei rapporti dell'ambasciatore, era quel qualcosa che aveva fatto pizzicare il naso del Generale e che ora faceva pizzicare il mio. Era una pista debole, debolissima, in realtà se fossi stato una Tunica Nera, di regola non avrei dovuto considerarla una pista perché priva di quei criteri di oggettività e connessione logica che ai burocrati del Consiglio piacevano tanto. Ma se neanche le Tuniche Nere rispettavano quella regola, io che nemmeno lo ero potevo fare quel che mi pareva, a patto di sopravvivere. E poi, in tutto quel tempo non avevo cavato nulla di serio sull'ambasciatore e i suoi affari, eccetto il fatto che non lo si vedeva spesso in giro, nella peggiore delle ipotesi avrei mascherato il mio fallimento dando al generale una bistecca al posto della salsiccia che mi aveva chiesto.
Ormai era arrivato il momento di muoversi.”


Salamdar fece una pausa, massaggiandosi gli occhi. Aveva l'aria stanca. Evidentemente parlare così a lungo l'aveva logorato, o forse era stato piuttosto lo sforzo di ricordare le proprie vicende.
L'elfo che nel frattempo aveva continuato a versargli da bere con le sue mani sottili e delicate, ma ferme e sicure, lo stava ora osservando con estrema attenzione. Sembrava che cercasse di carpire la storia con i suoi occhi penetranti, andando al di la' del semplice racconto, come se potesse vedere i pensieri ed i ricordi stessi di Salamdar.
Inaspettatamente disse “forse è meglio riposarsi per questa sera, non trovate? Potremo continuare domani il racconto, nel frattempo potrete rilassarvi e recuperare le forze”.
“No” rispose Salamdar con voce piatta “preferisco continuare”.
L'elfo corrucciò la fronte e lo squadrò con aria dubbiosa “secondo me avete bisogno di riposare prima”.
A questo punto Salamdar gli lanciò uno sguardo obliquo. Non sembrava più stanco o sull'orlo del tracollo e l'ombra di un sorriso parve aleggiargli sul volto, poi tutto cambiò e tornò ad essere quello di prima “ho raccolto il mio coraggio per parlarne ora, se interrompessi ho paura che non riuscirei più a proseguire, non credo che mi lascerei convincere due volte. Ve ne prego, datemi solo qualche istante per riordinare le idee e permettetemi di riprendere il discorso, sono certo che quando avrò vuotato il sacco, mi sentirò meglio” e stavolta sorrise davvero.
L'elfo annuì piano, poco convinto, “prendetevi tutto il tempo che volete, nel frattempo pulirò i boccali lasciati da quel nano laggiù”.
Passarono pochi minuti quando l'elfo tornò e trovò l'uomo ad aspettarlo, pronto a riprendere. Con un po' di titubanza gli chiese di continuare.

“Finalmente decisi che era arrivato il momento di far visita all'ambasciatore. Da quel che mi aveva detto il Generale, si chiamava Tardinio Nileste almeno finché non era entrato nell'Ordine di Ark col nome talare di Tardinius, pare che fosse un tipo arguto e ambizioso, originario di Wankrurneel e figlio di un borghese piuttosto ricco. Tardinius aveva scalato rapidamente i primi gradi dell'ordine ma non volle abbracciare i voti necessari a salire ulteriormente. Capita spesso nell'Ordine di Ark: è il più antico, ricco e prestigioso però è raro che i suoi membri salgano oltre un certo livello nel percorso di iniziazione e più spesso si dedicano ad altre cose come la politica. Tardinius era uno di questi. Il suo primo incarico era stato nella sua città natale, ma durò poco e per qualche ragione convinse il suo superiore a farsi mandare ad Ofrald. L'incarico, qui, era durato diversi anni senza intoppi finché non aveva cominciato a far passare sempre più tempo fra un dispaccio e l'altro.
Nello spionaggio è importante saper arrivare a conclusioni affrettate: il più delle volte c'è ben poco di segreto da spiare quindi si risparmia tempo e fatica basandosi sulle apparenze, altre volte di tempo te ne serve di più e devi saper inventare qualcosa da dare al tuo capo e farlo arrovellare mentre cerchi altro, altre volte ancora serve a te qualcosa su cui arrovellarti e da verificare. Per quanto riguardava Tardinius, avevo già deciso che stava tradendo la patria e che stringeva accordi segreti con questa Cancrelioth per chissà quali fini personali. Insomma, avevo il “cosa”, mi mancava il “come” e soprattutto il “perché”.  Forse la sto facendo un po' facile, ma è così. Va' in un posto, parla con la gente, ascolta le loro paranoie, seguile e troverai il mago che stai cercando nel mentre che ci infila dentro le mani come un orso con un alveare pieno di miele. È la natura.

Incominciai col prendere di mira i sottoposti di Tardinius, avvicinai il suo maggiordomo (quanto poco ci vuole per farne ubriacare uno) e mi sorprese scoprire che il nostro ambasciatore ormai non si faceva vedere che di rado in città. Preferiva forse Cancrelioth? Decisi di cogliere la palla al balzo, così una notte m'infilai il manto magico e mi intrufolai di nascosto nell'ambasciata, un edificio di tre piani squadrato e disadorno, con le finestre sbarrate al pian terreno ed un portone robusto che sbarrava l'accesso. 
Superare le guardie all'ingresso fu semplice perché non c'erano. Diedi da bere ad un barbone e lo pagai per andare a schiamazzare sotto l'ambasciata. Il custode in vestaglia cercò di mandarlo via ma fu costretto ad aprire il portoncino per dargli una ramazzata, io ne approfittai per sgattaiolare dentro.
Mi ero già fatto spiegare la disposizione dei locali, per cui non fu difficile orientarmi. Trovai subito le stanze dello stalliere, salii le scale fino al terzo piano evitando accuratamente gli appartamenti del maggiordomo.
Tutto il terzo piano era composto da un’ampia sala ben arredata con divani e poltrone, una libreria, un tavolino intarsiato e qualche sedia. Da un lato si apriva la terrazza, nel lato accanto c'era la porta dello studio. La aprii. La stanza puzzava di chiuso, la finestrella era serrata, la scrivania in legno di noce era sommersa di rotoli di pergamena e qualche libro, con una rapida occhiata capii che non c'era niente di utile. Un cassetto era chiuso a chiave ma lo aprii con facilità, dentro c'erano solo delle lettere scritte in lingua straniera, forse erano quegli strani caratteri usati dagli shoganesi, alcune altre erano in fencedhoriano, tutte provenienti da Ranespel. Altro cassetto, solo qualche sigillo e ceralacca.
C'era un piccolo baule, provai a forzarlo ma non ci riuscii e andai su tutte le furie, mi venne mal di testa e cominciai a sudare, poi ebbi le vertigini. Riconobbi i segni di un incantesimo protettivo. In questi casi bisogna lasciar perdere. Aprire il baule avrebbe significato rompere l'incantesimo e se non sai ripristinarlo tanto vale lasciare anche il proprio nome, indirizzo e ritratto. Col senno di poi, avrei anche potuto farlo, ma col senno di poi ci si riempiono le tombe. Andai invece a perquisire la camera da letto nella speranza di trovare qualcos'altro di utile, magari un diario delle proprie memorie in cui un mago preda di un solitario delirio di onnipotenza avrebbe vergato i propri progetti di conquista del mondo o cose simili.
Ovviamente non c'era, forse era nel baule, ma trovai qualcosa di molto più interessante: un atto di proprietà. I maghi sono tutti uguali, così competitivi e presi dai loro studi che mettono sotto chiave libri vetusti pieni di paroloni, pozioni e veleni, oggetti dalle più svariate proprietà per nascondere i propri segreti professionali e poi lasciano nel comodino le indicazioni su quello che comprano senza rendersi conto che è da lì che una persona avveduta può ricavare tutto ciò che le occorre.
A quanto pareva, il nostro Tardinius si era comprato un vecchio rudere proprio lungo quella che oggi chiamano la “scarpata nera”, riportata nel documento col nome ufficiale di Valsasso. C'erano anche dei contratti con maniscalchi, falegnami e architetti per la ricostruzione del rudere. Qualcosa mi disse che l'aveva trasformato in una torre e che stavolta gli ofraldiani non avevano fatto un lavoro approssimativo. I maghi adorano le torri. Servono sempre quando devi combinare qualcosa di grosso.

Adesso la pista stava diventando concreta. Mi sentivo nervoso ma non sapevo ancora perché. Sgattaiolai via dall'ambasciata con ancora più facilità dell'entrata, perché il custode aveva richiuso la porta fregandosene di bloccarla. Evviva l'approssimazione.
Tornai alla locanda dove alloggiavo per stabilire i prossimi passi. Avevo già in mente il quadro della situazione, abbastanza tipico, ora dovevo solo riempirlo di contenuti. È chiaro che potevo sbagliarmi, più o meno come si può sbagliare il sole a sorgere sbadatamente da ovest anziché da est. Non era la prima volta che spiavo qualcuno, il segreto sta nel capire le abitudini del proprio bersaglio per capire quando fa qualcosa di strano. Qui era diverso. Un ambasciatore ha tutta una serie di abitudini legate al suo ruolo e il Generale si era già accorto da un altro continente che c'era stata qualche stranezza. Io che ero sul posto, invece, non vedevo nessuna stranezza perché qui Tardinius semplicemente non stava più facendo l'ambasciatore. Faceva qualcos'altro. Scrissi queste cose criptandole in una missiva apparentemente banale che avrei spedito l'indomani al Generale. Tuttavia non potevo tornare indietro o il Generale mi avrebbe... diciamo che non gli sarebbe piaciuto che tornassi con così poco.
Il minimo che potevo fare era andare a questo rudere e almeno verificare se era stato trasformato in una torre. Ma se non volevo essere fustigato avrei dovuto darci un'occhiata anche dentro.

Ci misi tre giorni per trovare un paio di persone che mi avrebbero guidato per questa scarpata nera senza sgozzarmi nottetempo. Erano entrambi mercenari uno veniva da Mitiran, sul primo continente, l'altro era uno shoganese bassino e con gli occhi a mandorla, in questo ricordava un po' gli elfi. Partimmo la sera stessa senza troppi convenevoli e loro accettarono la mia richiesta di non battere i sentieri frequentati.
La città chiudeva le porte al tramonto, noi ci incamminammo verso est seguendo la strada principale fintantoché eravamo visibili, poi la abbandonammo.
Passammo la notte a camminare sotto la luna, poi tramontò anch'essa e ci fermammo a dormire. L'indomani riprendemmo il cammino col sole, ci fermammo nelle ore più calde e riprendemmo al pomeriggio. Avevo calcolato i tempi, il rudere non era lontanissimo ma volevo andar piano e  raggiungerlo all'imbrunire se non proprio di sera.
Durante il viaggio ebbi modo di comprendere perché quel luogo si chiamasse Valsasso. Era una pianura di terra brulla e sassosa che si stendeva dalle porte di Ofrald e si addentrava nell'entroterra verso est. Parlando con i miei compagni di viaggio seppi che era stata ribattezzata “la scarpata nera” per via di Cancrelioth che era sorta alla sua estremità orientale e che una volta si diceva avesse le porte nere, una volta i bastioni neri, un'altra volta ancora fosse sovrastata notte e giorno da nuvoloni neri.
E a proposito di nuvoloni, il secondo giorno di marcia venne giù un temporale improvviso che ci rallentò e ci costrinse a ripararci in una boscaglia su una collinetta vicinissima alla strada principale. Ci fermammo per la sera e io bestemmiai perché dovevo rifarmi i conti.
Quella notte l'umidità ti entrava nelle ossa, ci volle polvere pirica ed olio di fhoranor per accendere la legna. Il vento s'insinuava fra gli alberi e pareva sussurrarci all'orecchie parole lontane. Quella notte facemmo tutti degli incubi e ci svegliammo a metà del sonno, sudati, stanchi e inquieti. Il buio tutto intorno si era fatto pesante e la falce di luna illuminava appena i contorni delle cose, avevamo la sensazione di essere osservati.
–Che succede?– chiese il mitiraniano a bassa voce.
–Sono gli oni, i diavoli della notte– rispose l'orientale.
– È vero – confermai – sta succedendo qualcosa: tutte queste sensazioni, questo brutto presentimento, l'aria pesante... sono tutti segnali che gli spiriti sono vicinissimi al mondo della veglia, vuol dire che c'è di mezzo vera e propria magia–.
–Guardate lì!– disse il mitiraniano indicando un carro trainato da un paio di cavalli stanchi e scortato da tre soldati a cavallo con delle torce in mano.
Il carro si avvicinò alla boscaglia dov'eravamo riparati e la superò, d'un tratto però i cavalli s'innervosirono e comincarono a sbuffare e fare le bizze. Io guardai il carro e mi accorsi che era uno di quelli chiusi e dal contenuto ignoto di cui mi aveva parlato il tagliagole.
C'era una specie di ombra nera che sostava ai margini del mio campo visivo e mi scrutava, il confine si assottigliava sempre di più e compresi che era venuto il momento di prendere dei provvedimenti. Cominciai a formulare un incantesimo di protezione e poi dissi ai miei mercenari di dare un nome alle loro armi.
–Perché?– si opposero.
– È una magia di base, serve a combattere anima e corpo contro nemici che normalmente esistono solo nei sogni. Durante le guerre sacre contro Rolcan c'era tutto un addestramento per i soldati, adesso non c'è tempo per le cose raffinate per cui fate come vi dico o qui finisce male–.
Ci misero un po' ma obbedirono. Nel frattempo i soldati avevano ripreso il controllo dei cavalli e si stavano consultando col cocchiere per decidere che fare, quando ad un tratto cominciò a sentirsi una puzza tremenda e uno dei cavalli disarcionò il suo cavaliere.
Stavo ancora cercando di capire da dove arrivasse quella puzza quando alla luce delle torce dei soldati comparve improvvisamente questo mostro alto un più di due metri, con due occhi incassati nel cranio pelato e privo di orecchie. La bocca sbavante era una fessura rotonda e senza labbra. Era grasso e roseo, la pelle sembrava cuoio invecchiato e grinzoso. Fu un attimo che vomitò addosso al soldato disarcionato e questo cominciò a gridare come se l'avessero ustionato con olio bollente.
Gli altri due sguainarono subito le spade e cominciarono a colpirlo ma senza fargli nulla, sembrava colpissero un grosso barilotto ricoperto di cuoio imbottito e trasbordante: gli affondi non infilzavano e i fendenti si impigliavano nella carne. I soldati cominciarono a usare le torce infuocate per tenerlo lontano e fu solo quando il cocchiere venne ucciso che mi accorsi del collare di ferro alla gola del mostro e dei tre briganti che lo accompagnavano.
A quel punto decisi di intervenire: dissi ai miei mercenari di occuparsi dei briganti mentre io pensavo a qualcosa per quel mostro. Obbedirono e sgattaiolarono senza troppi problemi alle spalle dei briganti. Nel frattempo io avevo srotolato una delle pergamene da combattimento che mi ero tenuto, dentro c'era una freccia ricoperta di polvere pirica; la incoccai con un piccolo arco e la puntai sul brigante che comandava il mostro col guinzaglio.
Una delle due guardie rimanenti era stata abbattuta da un pugno di quel mostro che ora gli stava vomitando addosso. L'altro soldato era terrorizzato, sentendosi accerchiato, quando saltarono fuori i miei mercenari che uccisero al volo il primo dei briganti e ingaggiarono battaglia con l'altro.
A quel punto la mia freccia partì e s'incendiò a mezz'aria per conficcarsi nel petto del brigante col guinzaglio e lo fece diventare una torcia umana che illuminò tutto il campo. La bestia era adesso senza padrone e si era avventata su uno dei cavalli.
Il soldato, che non aveva ancora capito cosa stesse succedendo, si era ritirato in cima al carro con gli occhi pazzi di paura e l'ultimo brigante aveva ferito il mitiraniano prima di essere atterrato dallo shoganese.
Restava solo quel mostro e non avevo idea di come gestirlo. Senza pensarci troppo mi infilai i guanti di cuoio e gli puntai contro la bacchetta, sperando che fossimo abbastanza addentro ai mondi spirituali da farla funzionare al massimo.
Così fu e dal diamante sulla punta si sprigionò un lampo che andò a colpire alla testa il mostro, che intanto stava mangiando un cavallo, per fulminarlo e arrostirlo.
–Chi siete?!– gridò con voce stridula il soldato rimasto sul carro, nel frattempo cominciai a sentir bussare sulle pareti del carro.
Ora che era tutto finito mi guardai intorno e capii di aver rovinato tutta la missione segreta. Imprecai per un paio di minuti buoni mentre i miei compagni legavano il brigante ancora vivo e facevano scendere dal carro il soldato. Una volta calmatolo e rassicuratolo delle nostre buone intenzioni, ci togliemmo dalla strada e ci accampammo.
–Sono una delle guardie di Ofrald– disse il soldato, un ragazzino spaurito dai capelli rossi e pieno di lentiggini –il comandante una sera ci ha dato in fretta e furia  l'incarico di portare questo carro verso est, lungo la scarpata. Ci ha detto che è pieno di galeotti della peggior specie e che andavano mandati ai lavori forzati. Dovevamo incontrare lungo la strada una pattuglia che li avrebbe presi in custodia. Mi era sceso un magone addosso sin dalla partenza ma ora sono sicuro che ci abbiano mandati a morire, quella di prima era un'imboscata– a queste parole guardai in faccia il brigante per vedere se reagiva ma sembrava troppo spaventato per tradirsi sotto altri aspetti.
–Ma voi cosa ci facevate qui?– chiese.
–Domandalo al capo, noi siamo pagati come scorta– disse il mitiraniano mentre si fasciava il braccio, indicando me.
–Sono un esploratore– dissi –lavoro per un mercante d'armi daconiano, uno facoltoso e ambizioso, gli è capitato di comprare un po' di queste– e indicai la bacchetta che ormai avevo usato e dovevo giustificare –di contrabbando e mi ha mandato in giro a vedere se c'erano acquirenti interessati. Sapete, questa è roba pericolosa, l'avete visto, inoltre se si venisse a sapere che ce le ha lui... perciò vuole venderle lontano. Se sapesse che ho usato quella dimostrativa per gli affari miei mi farebbe tagliare una mano–.
I galeotti nel carro ricominciarono a bussare e sentimmo delle vociare provenire dall'interno.
–Apriamo un po' questa cella– dissi, ma il soldato tentò di fermarmi: –no per carità! Stanotte ho già passato abbastanza guai!–.
–I guai non sono finiti, temo, ma ho il sospetto che saranno altra natura– risposi io, intristito dall'idea che mi ero fatto di ciò che avrei trovato.
I miei sospetti si rivelarono fondati quando, aperto il lucchetto del carro, ne uscirono sei donne più o meno anziane dai vestiti laceri, una giovane donna magrolina dai capelli scuri, quella che aveva bussato per farsi sentire da noi, e due bambini.”

“State dicendo che non erano galeotti ma donne e bambini?” disse l'elfo, angosciato, mentre si versava del brandy. Ormai aveva incominciato a bere anche lui mentre Salamdar gli raccontava la sua assurda storia.
Gli occhi di Salamdar si velarono di lagrime ed un'espressione di rimpianto gli attraversò il volto. Rimase in silenzio per un po', cercando di trattenersi, poi gli scoppiarono dei singhiozzi in gola che si trasformarono un vero e proprio pianto. L'elfo rimase sbalordito e gli versò un altro bicchiere di cordiale, gli posò una mano sulla spalla e lo invitò a bere.
Di nuovo il cordiale ebbe un effetto positivo sull'uomo che si ricompose e dopo un altro po' di silenzio.
“Se non volete continuare il racconto, lo capisco...” incominciò l'elfo ma Salamdar lo interruppe “no, vi prego... avevate ragione a dire che mi fa bene, io ora ho cominciato e non so se ce la farò un'altra volta a ricominciare... mi serve solo del tempo per rimettere a posto i nervi e poi potrò continuare”. L'elfo annuì e attese. Salamdar trasse un bel respiro, fece un altro sorso di cordiale e ricominciò.

“Le donne erano tutte povere vedove, accusate di qualche sciocchezza come non aver pagato le tasse o rubacchiato qualcosa. Giudicate sommariamente colpevoli, le avevano messe in cella, poi infilate in quel carro e deportate altrove. Dei bambini non si capiva cosa ci facessero li': giocavano per la strada e ad un certo punto erano stati prelevati da qualcuno e messi sul carro. La ragazza dai capelli scuri aveva visto la scena e si era messa a gridare contro questi tizi prendendoli a calci, poi era arrivato questo soldato che l'aveva manganellata e si era risvegliata sul carro insieme a tutti gli altri. Il suo nome era Espasia ed era energica e testarda con una bocca ciarliera impossibile da farle chiudere. Le altre erano tutte donne comuni, un po' piegate dall'età e con le carni rese callose dalle fatiche.
Dopo aver raccolto la loro storia, passammo ad interrogare il bandito. Fu una cosa estremamente semplice perché era già terrorizzato di suo.
Ci disse che era al servizio di Tardinius ed io esultai intimamente, disse che il carro era per lui, anche se nessuno doveva saperlo. Per questo tendevano delle imboscate e uccidevano anche le guardie. L'abominio, così chiamavano quel mostro, serviva a loro per fare un lavoro pulito ed essere certi di non lasciare nessuno vivo, glielo aveva dato Tardinius a quanto pare. Chissà dove se l'era procurato? Ormai la pista era diventata più che una pista, era un vero e proprio caso.
Avrei potuto anche terminare lì la missione e tornare a casa per fare rapporto, avevo persino abbastanza prove e testimoni da far avviare un'inchiesta al generale e se fossi stato un ispettore in servizio l'avrei fatto. Ma ero una spia. Non ero lì per raccogliere prove ma per scoprire tutto il possibile con qualsiasi mezzo, di modo che eventuali ispettori avrebbero già saputo che prove cercare una volta inviati. Tuttavia non volevo sprecare quello che avevo già trovato, allora mi misi a riflettere sul da farsi.
–Dunque– dissi rivolto al soldato –ora tu te ne vai di qui e ti porti appresso queste donne...–
–NO!– sbottò Espasia. La guardai sbigottito e spiazzato.
–Ragazza non è il momento...–
–Non possiamo andarcene!!– disse lei –Ma non lo capisci che noi non siamo le prime? E non saremo nemmeno le ultime! Dobbiamo andare in fondo a questa cosa, adesso!–
–Ma non dire sciocchezze!– rispose il mitiraniano –noi qua dobbiamo salvarci la pelle e portare voi in salvo e questo è già un bel guaio senza che voialtre ci facciate problemi...–
–Senti, galletto, se vuoi fare l'eroe mi sta bene ma allora fallo fino in fondo e stammi a sentire, perché qua i guai ce li abbiamo tutti– gli rispose Espasia, al che il mitiraniano si alzò paonazzo di rabbia e fece per darle un ceffone, ma lei fu più veloce e gli diede un pugno sul braccio fasciato, facendolo cadere a terra, di nuovo paonazzo, ma dal dolore.
–Ti arrabbi anche?– gli disse –hai idea di come ci sentiamo noi da giorni? Io sono inviperita da questa gente e voglio fargliela pagare. Ah! Ma quante me ne hanno fatte! Fosse l'ultima cosa che faccio ma non me ne torno a casa con la coda tra le gambe!–
Ero completamente stordito, le altre donne mormoravano sommessamente fra di loro, chi approvando e chi con angoscia. Una di loro si alzò e disse –Espasia cara, io sono d'accordo con te, ma noi qui siamo tutte vecchie e non è che possiamo fare molto, inoltre ci sono i bambini da riportare a casa, pensa a loro–.
–Ci ho già pensato Vilna e se qualcuno qui mi fa parlare, vi dico cosa ho in mente– e mi trapassò con lo sguardo.
–Sentiamo– dissi. Il mitiraniano era tornato a sedersi fra il soldato e lo shoganese.
–Innanzitutto qualcuno di voi– e indicò noi quattro –si porta appresso le donne con i bambini e torna indietro col carro. Gli altri vengono con me da Tardinius–.
–E come?–
–Quel fellone ha detto che Tardinius non ha un esercito ma solo cinque uomini fissi che gli gestiscono gli abomini, mentre altri non sono direttamente ai suoi ordini e vanno avanti e indietro. Di certo non possiamo fare un assalto ma possiamo infiltrarci. Gli altri quattro rimasti conoscevano solo il loro compagno con l'abominio. Quest'altro– indicò il bandito legato–  e quello che avete ucciso, non li conoscevano. Potete fingere che l'abominio sia sfuggito al controllo e abbia ucciso tutti eccetto me, loro mi mettono in cella con gli altri, io metto i prigionieri in guardia, voi trovate il modo di aprici al momento giusto e mettiamo su una rivolta. L'importante è impedire agli uomini di guardia di usare gli abomini– e fece un sorrisetto malizioso”.

“Una donna ardita” commentò l'elfo, impressionato.
“Io avrei detto anche avventata e ingenua” sorrise Salamdar “ma aveva le sue ragioni” ed abbassò lo sguardo, sospirando.

“Rimasi molto colpito da quel piano messo su in dieci minuti, un po' per l'ingenuità che dimostrava, visto che riponeva una grandissima fiducia in noi, forse troppa, ma soprattutto perché la ragazza aveva attribuito a se stessa il ruolo più pericoloso. È così che si fa. I piani assurdi non si propongono se non vi si prende parte.
Furono insieme questo, il sonno, la mancanza di idee migliori e una certa propensione a voler assecondare quella donna, a farmi dire: –forse si può fare–.
Il mitiraniano protestò, lo shoganese rimase silenzioso come sempre, seduto sui talloni, a meditare con una strana espressione sul viso mentre accarezzava l'impugnatura della sua katana. Il soldato di Ofrald era un po' incerto.
Viste le reazioni degli astanti, commentai –però vanno discussi i dettagli–.
Per farla breve, avevo capito che non potevo portarmi dietro ne' il mitiraniano ne' il soldato. Dissi loro di scortare le donne al sicuro ma non ad Ofrald, lì non era il caso mettessero più piede. Presi in disparte il mitiraniano e gli spiegai la vera natura della mia missione, gli misi in mano un paio di monete d'oro e gli chiesi di portare un dispaccio al generale da parte mia, rassicurandolo sul fatto che fosse generoso nelle ricompense, altrimenti non avrei mai lavorato per lui. Fu ben lieto di avere un motivo per tornarsene in patria e io gli scrissi un bel rapporto per il generale in cui gli dicevo che il messaggero era anche un testimone e lo raccomandavo di trattarlo bene.
Il soldato disse che avrebbe portato le donne giù a sud, verso le due contee, dove c'era il suo villaggio natìo.
Lo shoganese, disse, ci avrebbe seguito gratuitamente perché aveva capito che c'era il suo karma ad attenderlo alla fine di questo viaggio e che era il momento di affrontarlo. Non mi volle spiegare di che si trattava e alle mie curiosità rispose semplicemente –posso riscattarmi– con un vago sorriso. Non capii ma mi convinse: queste sono quelle cose che accadono quando si finisce nei mondi spirituali, dove la vita si scuote dal suo abituale torpore quotidiano e all'improvviso ti senti meno anonimo, meno insensato, non so se mi spiego.
Espasia era giubilante. Mi diede persino un bacio schioccante su una guancia che attirò la disapprovazione di un paio di donne e del mitiraniano. Divertito, glielo feci notare e lei mi sussurrò –sono abituata–.
Ci riposammo per il resto della notte, il mattino dopo facemmo i preparativi e ci salutammo. Il brigante se lo sarebbero portato dietro loro, noi ci travestimmo e prendemmo la strada per quella che ormai mi era chiaro fosse la torre di Tardinius.
Ci arrivammo a metà pomeriggio. Dietro una collinetta brulla un sentierino si diramava dalla strada principale e ci avrebbe portato rapidamente al maniero. Decidemmo di aspettare l'imbrunire e intanto salimmo sulla collinetta per farci il quadro della situazione.
La torre non era un gran che, ma io sono abituato ai torrioni antichi e maestosi di Ranespel, dove risiedono intere congreghe di maghi. Questa era accettabile nel suo complesso, un solido e largo edificio circolare strutturato su tre piani. Tutto intorno alla circonferenza di base individuammo le stalle per gli abomini. Un po' discosto c'era un capannone con gli uomini di guardia, quattro in tutto.
Eravamo numericamente inferiori, ma col vantaggio della sorpresa e delle mie armi magiche, perciò mi sentivo sicuro. Tardinius avrebbe avuto un'infinità di protezioni magiche sulla sua torre che si aspettasse un assalto oppure no, ma dubito che si sarebbe preoccupato di proteggere anche il capannone, anzi: quando ti circondi di ladri e tagliagole prezzolati è meglio non immunizzarli alle tue stesse armi.
Sentivo tutt'intorno la presenza degli spiriti e questo era preoccupante visto che il sole era ancora alto. Significava che Tardinius si era messo massicciamente all'opera e con i suoi esperimenti stava inquinando gli equilibri delle terre circostanti.
Mi rivolsi ad Espasia –Sei ancora sicura di voler venire con noi? In fondo io e Tokuga possiamo lo stesso infiltrarci anche senza di te–.
–No, io voglio entrare in quelle celle– rispose lei. La guardai a lungo.
–Tu non me la racconti giusta– dissi.
–E perché, tu? Tutto questo va ben oltre la ricerca di acquirenti per armi magiche, non mi freghi. Io credo che ognuno qui abbia motivi suoi che non dice agli altri. Finché ci portano nella stessa direzione a me va bene, poi si vedrà– scrollò le spalle e si asciugò una lagrima e io provai l'impulso di abbracciarla ma non lo feci perché sentii che avrei commesso un errore.
Quando il cielo si fece rossastro e poi sempre più scuro, scendemmo sul sentiero, legammo i polsi di Espasia e partimmo.
Arrivammo fino al capannone e dovemmo persino bussare. Stavano cenando e questo mi fece ricordare che avevo fame anch'io.
–Cosa stracazzo è successo qui?– domandò quello che ci aprì quando vide noi due con la prigioniera.
–Cosa è successo?– gridai appresso –è successo che quella bestia che ci avete dato ha combinato un casino giù sulla strada! Ecco che è successo!–
Sentite le grida, gli altri due si alzarono dal tavolo per venire a vedere, il quarto rimase con la testa appoggiata sul tavolo e un bicchiere di rum ancora stretto nella mano.
–Dov'è Restor?– chiese uno di loro.
–La bestia gli ha vomitato addosso durante l'agguato, è andato. Poi si è liberata e ha fatto un macello. Le abbiamo dato fuoco, ma ormai si era mangiata guardie, cavalli e prigioniere, tranne questa– e indicai Espasia con un cenno.
Uno di loro imprecò –quel succhiauccelli su nella torre darà di matto, vedrai. Adesso porta qui la puttanella che eravamo un po' a corto ultimamente–.
Espasia fece un tentativo di scappare, ma rimase zitta. Io spero fosse per recitare la parte.
–No, non ci siamo capiti– dissi –ci rimane solo questa di tutta la merce, noi adesso la consegniamo, ci prendiamo i nostri soldi e ce ne andiamo–.
–Ma tanto prima di domattina il capo non scende perciò non avrete niente, così imparate a fare lavori di merda e camminare col culo a terra. Dite la verità ci avete messo tutto sto tempo per spassarvela con quella– ghignò insieme agli altri –adesso però fate i bravi e portatela dentro, il capo ce ne lascia sempre qualcuna–.
Sfoderai la daga e la puntai velocemente sotto la gola barbuta di quello che mi parlava dall'ingresso.
–No, allora allora non ci siamo davvero capiti. Non me ne frega di quello che volete o degli ossi che vi da' il vostro padroncino, questa è l'ultima e va al capo così com'è. Non voglio rischiare di perdere i miei soldi– gli altri due avevano sfoderato le spade, ma la porticina era troppo piccola e dovevano restare indietro.
–Dannazione e va bene! Ora toglimi sta merda dalla gola che se me le fai girare, i trastulli stanotte saranno tre, ti piacerebbe, vero?!– si allontanò per prendere una grossa chiave incisa con degli incantesimi.
I due scagnozzi finirono la cena mentre quello che era evidentemente il capo ci portò fino all'ingresso della torre. Infilò la chiave in una grossa toppa decorata con un cerchio di protezione, la girò e aprì il portone.
All'interno del pianterreno della torre era piuttosto buio e non si vedeva nulla, c'era una grossa gabbia di legno all'interno della quale fu spinta Espasia. Una scala a chiocciola di pietra saliva fino al secondo piano, dal quale proveniva una strana luminescenza.
Ci fece uscire per primi dalla porta della torre e stavo pensando alla prossima mossa, quando fui colpito alla testa.
Mi accasciai al suolo senza svenire ma mi presero le vertigini e mi ci volle un minuto per rialzarmi. Lo shoganiano aveva reagito con estrema rapidità: sfoderando la spada aveva colpito un aggressore allo stomaco con l'elsa e poi con un unico fluido movimento l'aveva decapitato. Intanto aveva sfoderato un'altra piccola spada e si era messo in guardia accanto a me per non far avvicinare nessuno.
Ora ero in piedi accanto a lui, furibondo e sanguinante. I nostri nemici erano tre, evidentemente avevano mangiato la foglia. Non temevo quella schermaglia ma temevo che potesse attirare l'attenzione di Tardinius. Lui non sarebbe stato gestibile.
Il capo, che avevamo ributtato dentro la torre, spiccò un salto addosso a Tokuga che non lo vide subito a causa del buio e rotolarono a terra insieme, intanto uno dei due mi venne contro ma quel bicchiere di rum che gli avevamo visto in mano mentre era sul tavolo non doveva essere una messinscena perché  lo scansai facilmente. Cadde riverso a terra ma mi afferrò per il bavero facendomi inginocchiare. Un sonoro calcio mi arrivò sulla schiena dal terzo, ancora sobrio, poi si allontanò. Uccisi l'ubriaco e vidi che Tokuga aveva sopraffatto il suo avversario ma aveva un braccio sanguinante.
– È andato a prendere un abominio!– gli dissi a denti stretti e mi maledissi per la mia stupidità. Ad un tratto sentii un brivido gelido lungo la schiena. Guardando nell'oscurità vidi una serie di occhi scintillanti.
–Ha evocato delle ombre!– dissi a Tokuga che sembrava non capirmi –Tardinius, il mago! Deve averci sentito e sta evocando delle ombre, scappa immediatamente, non devono prenderti. Domattina saranno sparite ma per allora è inutile combattere.–
Tokuga sgranò gli occhi –tornerò– mi disse e poi corse via.
Io intanto ero entrato nella torre, e avevo lanciato un incantesimo per tenere lontane le ombre. Avevo già impugnato la bacchetta, in attesa.
Comparve l'ultimo brigante con l'abominio incatenato. Volli farlo avvicinare il più possibile per due ragioni: non sbagliare mira e capire se l'abominio sarebbe stato fermato dal mio incantesimo.
Non accadde e mentalmente annotai la cosa. L'abominio era ormai vicinissimo e il brigante vi si nascondeva dietro. Perfetto.
Puntai la bacchetta e feci partire un lampo. Questo cadde sulla testa dell'abominio, lo attraversò e colpì anche il brigante facendoli stramazzare a terra l'uno sull'altro.
Dopodiché svenni”.

“E' una storia terribile” disse l'elfo “è stato un incantesimo di Tardinius a stordirti, vero? Sono contento di vedere che ora siete qui sano e salvo, ma non riesco ad immaginare cosa possa essere successo”.
“Già” rispose Salamdar “mandare via Tokuga è stato un bene ma la salvezza è arrivata da un'altra parte, ma andiamo con ordine”.

“Ripresi conoscenza sul tavolo di lavoro di Tardinius. Lui era seduto accanto a me, con la fronte rugosa dalla preoccupazione e i lunghi capelli grigi scarmigliati che gli scendevano sul talamo. Aveva in mano il suo bastone.
–Chi ti manda?– chiese.
–Nessuno– risposi io.
Rimase in silenzio per un po', chiuse gli occhi e lo sentii insinuarsi nella mia testa. Lo scacciai immediatamente.
–Sei addestrato– disse –interessante– e fece una cosa che non mi sarei aspettato: si mise a ridere di gusto, tutto eccitato e con una luce negli occhi.
–Non sembri un mago– continuò –ma hai dei giocattoli interessanti– e prese in mano la bacchetta che aveva appoggiato su un tavolino lì accanto, senza usare i guanti.
–Ferro azzurro del Fencedhor e sembri un mezzo sadiano... vieni dal primo continente, non sei un mago ma sei ben attrezzato. Ti manda Muthan il rosso? Quell'elfo infingardo vuole mettersi in mezzo e rubarmi il posto, ma non è ancora il suo momento”– disse e allora mi accorsi delle forti occhiaie nere che invecchiavano il viso di quell'uomo.
–Senti– dissi cautamente, conoscevo di fama Muthan Talas –se avessi ragione e mi avesse mandato Muthan potresti anche immaginare che non gli sono certo affezionato. Perché non ne discutiamo in una posizione meno scomoda? Potrei anche esserti utile– azzardai.
Tardinius rise di gusto per una seconda volta.
–Si, potresti– rispose – e lo sarai. Ma dopo. Voglio capire un'altra cosa prima. Quanto ne sai di magia? –. Mi serviva tempo quindi decisi di assecondarlo.
–Abbastanza, avevo i soldi per studiare ma non per affiliarmi ad una Torre e fare il percorso iniziatico. Ma ero abbastanza bravo e mi piaceva, per questo sono rimasto nel giro–.
Tardinius sembrò contento della mia risposta –bene, benissimo!!– gli venne persino da applaudire –allora forse puoi capire! Ma procediamo con ordine... ora voglio sapere un po' di cose su Muthan, se è davvero lui che ti manda– e prese un tizzone dal camino”.

“Mi dispiace” disse l'elfo a bassa voce, posandogli una mano sulla spalla.
“Anche a me” disse Salamdar.
Fece un lungo sorso di cordiale e poi riprese a raccontare.

“Non so quanto tempo durò, forse anche più di un giorno. Non parlavo facilmente e perciò si dovette accanire. Non si prese neanche la briga di interrogarmi minuziosamente, sembrava più interessato a sezionarmi la mente che il corpo. Molte delle torture a cui mi sottoponeva avevano poco di corporale. Mi iniettò qualche sostanza nelle vene e persi il senno. Vidi molte cose in quello stato di follia, tanto più che eravamo al centro di un vortice magico per cui gli incubi erano più che semplici sogni, ma vere e proprie entità che mi succhiavano via la vita.
La cosa peggiore di tutto ciò è che non capivo cosa stesse facendo e perché. È tremendo essere torturati ma è peggio quando non c'è un motivo. Non voleva informazioni, non voleva niente. Era come se volesse curiosarmi dentro.
–Va bene, va bene– disse verso la fine, sembrava un po' insoddisfatto.
–Sono molto indietro col lavoro a quanto pare, tu sei una mente più complessa delle villiche o dei galeotti su cui ho messo mano recentemente. Sei più, come dire... intero, si. Piegarti non sarà facile–
–Di cosa parli?– sussurrai.
–Oh, siamo ancora loquaci eh?– sorrise –parlo delle mie ricerche!–
Mi slegò e mi mise su una sedia con delle ruote.
–Vieni, ti faccio vedere– e scendemmo al piano di sotto, il secondo.
Era una stanza piuttosto buia, senza finestre, ma la luminescenza veniva da questi globi luminosi posti sopra delle ampolle enormi e piene di liquido.
– È qui che creo gli abomini, sai? È un'altra mia ricerca. Ora ti faccio vedere–.
Toccò con la punta del bastone uno dei globi luminescenti che cominciò a brillare con più forza, insieme a quelli delle altre ampolle, collegati fra loro da fili di rame e altri metalli. Dentro ogni ampolla c'era un essere umano o almeno così sembrava. Uomini o donne, non li si riconosceva più. Le ossa della cassa toracica sembravano essersi fuse, simili ad un barilotto, la pelle non c'era più e la carne viva era esposta, ma in alcuni il procedimento sembrava più avanzato e la carne era diventata già più spessa e dura come cuoio. In tutto c'erano sette ampolle, ma la settima era nera.
–Ti piace? Eheheh, non so se puoi apprezzare l'arte, ma ho trovato il modo di trasformare queste inutili bestie in ottime macchine da guerra. Guarda: le ossa si fondono e diventano un'armatura interna mantenendo le articolazioni solo nei punti strategici, la carne diventa una specie di spessa giacca di cuoio, resistente ma morbida, attutisce i colpi e non si strappa. I muscoli devono gonfiarsi molto per sostenere il peso e questo li rende lenti. Inoltre non possono masticare, perciò vomitano addosso alle prede e poi le succhiano già digerite, come fanno i ragni– sembrava sempre più eccitato mentre parlava, anche se manteneva un falso contegno mentre mi indicava i punti dove guardare per apprezzare meglio –il problema più grosso è che gli organi interni non riescono a mantenerlo in vita a lungo, vanno in cancrena e producono una puzza tremenda. Eeeehhh, devo ancora perfezionarli– disse tirando un sospiro– ma questa è una ricerca collaterale, delle armi che non siano soggette a controincantesimi come le ombre che hai sapientemente allontanato, le costruisco con gli scarti della mia ricerca principale, ovvero– e qui mi si avvicinò a pochi centimetri dal viso per guardarmi negli occhi –come annullare la Volontà Umana– e sorrise allegramente.
Feci una smorfia di disgusto e lui la vide. Se ne compiacque.
–Perché?– domandai con un sussurro. Speravo di guadagnare altro tempo per rimettermi in sesto, non mi aveva debilitato particolarmente nel fisico ma avevo difficoltà a pensare, a sentire il mio stesso corpo e a muovermi.
–Perché?– mi fece eco lui –e me lo chiedi anche?– rise –ma perché è la fonte di tutte le disgrazie, ecco perché! Guardati un po' intorno: siamo tutti soli, divisi dalle nostre volontà sappiamo soltanto ucciderci a vicenda nella sofferenza. L'aveva già capito l'Imperatore Nero, Tah Klifther, e aveva riunificato tutti i regni del primo continente sotto il suo pugno di ferro, solo che si è accorto che i suoi metodi erano limitati poiché coalizzare i popoli contro nemici esterni o ribelli interni aggirava il problema ma non lo sradicava. Fece anche altri tentativi più diretti di creare dipendenze nei sudditi per poi gestire le risorse ma non bastava. Capì che la sua opera non era sufficiente allora si lasciò uccidere dai ribelli, rinunciò alla sua vita umana ed alla sua stessa Volontà per divenire un'ispirazione, una filosofia. In altre parole, un Dio!– adesso il suo sguardo era totalmente invasato, ma io mi stavo riprendendo.
–Vuoi conquistare il mondo?– lo schernii.
Lui si mise a ridere –sei intelligente, mi piaci. Non voglio conquistare il mondo, non voglio coltivare la mia personale volontà, no... sarebbe una contraddizione irrisolvibile e deleteria. Io sono soltanto un umile servitore–.
A quel punto ebbi un moto di paura che mi afferrò sin nelle viscere –di chi?–.
Lui mi guardò con l'aria di un bambino sorpreso e compiaciuto.
–Hai presente Rolcan, il Signore Oscuro, l'araldo del Dio Senza Nome? Lui era soltanto un'Ombra, era l'Ombra oscura di un passato lontano in cui le cose buone vennero corrotte. Egli fu ucciso all'inizio di questa era, ma certe cose non scompaiono così, no. Non se ne vanno mai. E ritornano. Ritornano dall'aldilà, ti perseguitano e non se ne andranno mai. Esse ritornano!– prese a passeggiare nervosamente avanti e indietro ripetendo ancora un paio di volte fra sé –ritornano sempre–.
Tornò verso di me e mi guardò a lungo, mi scrutò negli occhi.
– È la forma che cambia, capisci? Ed ora c'è Tah a dare nuova forma e le cose non saranno più le stesse. Una nuova potenza sorge ad est. Cancrelioth, l'avrai sentita nominare dai bifolchi ad Ofrald. Io ci sono stato sai? È la città dei morti. È la città di coloro che ritornano. È il luogo in cui le cose ricominciano. Bisogna adeguarsi, sai? È il mondo che cambia– aveva l'aria preoccupata.
–Ma ora bando alle chiacchiere inutili, ti ho detto tutte queste cose perché avevo voglia di condividere la mia arte con qualcuno che la capisse ed è quello che farò, anche perché stai per diventarne parte. Non sei elettrizzato? Stai per diventare un tassello importante delle mie ricerche! Tu puoi capirlo, lo so, ti ho visto dentro– questa frase mi raggelò.
Mi portò davanti all'ultima delle ampolle, quella nera, l'unica non collegata con le altre.
–Devo dirti che ho impiegato molto tempo per portare avanti le mie ricerche ma sono sulla strada buona. All'inizio cercavo di piegare la volontà con l'ipnosi o altri incantesimi fascinatori ma non funzionava mai del tutto, poi sono passato ad armeggiare con il corpo. Cervello, terminazioni nervose, saresti sorpreso di scoprire quanto la nostra mente e la nostra anima siano incarnate nel corpo. Insomma, in ogni caso arrivavo sempre solo a metà dell'opera. Quando le cavie riuscivano a vivere, restavano inebetite e inerti oppure si trasformavano in bestie rabbiose. Riuscivo ad eliminare tutte le sovrastrutture ma la volontà rimaneva e non c'era obbedienza, non c'era unità. È per questo che ho deciso di isolare la volontà da tutto il resto. Per comprenderne la sua più intima natura la devo studiare nella sua forma pura– strofinò il braccio contro l'ampolla nera e vidi che era vetro scurito, ma che non era impossibile guardarvi dentro. Strizzai gli occhi e vidi una sagoma umana immersa in un liquido.
– È liquido amniotico, sai?– rispose ad una mia domanda non formulata e la cosa mi parve sinistra –non ti dico quante femmine gravide mi sono servite per procurarmene così tanto, comunque è andata, ora lì dentro c'è un bambino. Era di una delle... una delle cavie e l'ho fatta partorire lì dentro. Adesso il bambino sta crescendo e maturando perfettamente e senza nessuno stimolo esterno, capisci? Sono già anni che continua a crescere, ormai è quasi pronto per essere messo al mondo e sarà puro. La sua mente sarà perfetta, ne' linguaggio ne' relazioni ne' emozioni ne' null'altro l'avrà modificata ed io potrò finalmente osservare l'essenza ineffabile della Volontà Pura, che fino ad ora mi è sempre sfuggito e farò di lui l'uomo del futuro!–.
È suo figlio, pensai. Sta facendo questo a suo figlio. Forse non era peggio di tante altre violenze che avevo visto in giro per il mondo, ma ne ero più spaventato che mai. Mi chiesi il perché mentre che lui mi riportava di sopra. Ero legato.
Ad un tratto capii o credetti di capire: piccole o grandi violenze e soprusi quotidiani fanno parte della normale litigiosità delle persone che purtroppo arriva spesso ad essere così esasperata da sfociare nella tragedia.
La schiavitù era una di queste, forse la peggiore mai incontrata. Incomincia quando un popolo ne soggioga un altro con la forza, si eleva alle vette della follia quando si giustifica il dominio con qualche ideale o teoria. Allora si dispone della vita altrui che fosse una proprietà. Si fa come se l’altro non fosse nulla più che un oggetto.
Qui era diverso. Qui il sopruso non solo era il modo di fare di una volontà che non potendo accogliere quella altrui, la possiede. Era proprio lo scopo. Non c'era altro. La voragine nera che mi si apriva davanti era la possibilità di un mondo intero tutto così. Una promessa di schiavitù perpetua. Senza padroni. Per tutti.
Capii finalmente cosa stava succedendo ad Ofrald. Era in atto la trasformazione, da vivi a morti, o morti viventi. I cadaveri animati, i lich, i vampiri, sono tutte creature che appartengono ai mondi spirituali. Ma i tentacoli della non–morte raggiugono anche il nostro mondo e si incarnano in quelle vite spente, inutili, perse, in quegli sguardi vuoti, in quell’agire quotidiano senza un perché.
È come diceva Tardinius, è il male che si adegua e si trasforma col mondo.
Ormai Tardinius mi aveva rimesso sul tavolo da lavoro e mi stava legando nuovamente. Raccolsi tutte le forze che avevo e gli mollai un destro sulla sua mascella da vecchio. Non se l'aspettava.
Imprecò, mi toccò col bastone e mi fece male. Molto male. Ma ero legato solo in parte e questo fu fondamentale perché quando Espasia comparve alle sue spalle e gli diede una sonora manganellata, io potei liberarmi da solo mentre lei continuava a prenderlo a calci senza dargli il tempo di riprendersi.
–Tu maledetto!– gridava in lagrime –l'hai uccisa! Hai ucciso Eleise! Mostro!– e continuava a scalciare, le diedi una mano, giusto per riconoscenza e per mostrare a Tardinius la mia simpatia.
Il vecchio era svenuto e da quel momento in poi l'aria attorno a lui si era fatta solida e ci respingeva. Riconobbi l'incantesimo: non lo si poteva uccidere finché era incosciente. Provai a togliergli il bastone ma non funzionò. Presi Espasia per un braccio, raccolsi mantello e bacchetta e scendemmo di sotto.
–Come hai fatto?– le chiesi.
–Secondo te mi facevo imprigionare così, senza i ferri per aprire la serratura? Mi fidavo di voi ma non così tanto– poi scoppiò a piangere – ma Eleise non c'era, non c'era più nessuno... ELEISE amore mio!!!– gridò. Si asciugò le lagrime –vi ho ascoltati, prima. Ora ho capito che l'ha uccisa o meglio, l'ha trasformata in uno di quei cosi...– e fece un cenno verso una delle ampolle – ho sentito tutto, sai? Ero libera già da un po'. C'è Tokuga qui fuori ma non riesce ad aprire il portone e col braccio ferito non può arrampicarsi, allora sono salita ed ho ascoltato tutto... lui ha fatto rapire la mia amata, capisci? È per questo che mi sono fatta arrestare anch'io. Non sapevo se l'avrei liberata ma saremmo state insieme. Ma ora è finita. Non mi resta più niente–.
Ero troppo intorpidito per mettermi a discutere, le dissi soltanto – non farti contagiare, non puoi sapere se è davvero finita qui in mezzo. Ora andiamo via di qui, forza –.
–No– rispose lei – dobbiamo andare fino in fondo a questa storia. Distruggiamo tutto mettiamo fine a... alle loro sofferenze!–.
Aveva ragione. Guardai le ampolle e mi domandai come distruggerle, poi scrollai le spalle ed optai per la via più semplice. Impugnai la bacchetta e feci partire un lampo verso il filo di rame che collegava le sei ampolle. Scoppiarono tutte insieme in un boato e il liquido si riversò a terra, colando al piano di sotto. Restava solo l'ultima ampolla, mi avvicinai quando sentii il ruggito di Tardinius provenire dalle scale –FOLLI! Cosa avete fatto?!–.
Espasia si infilò il manto magico e disparve in un angolo buio.
Tardinius discese furente le scale, col viso imbrattato di sangue, vide la scena e rimase attonito. Io cercai di muovermi verso l'ultima ampolla ma fui lento perché lui agitò il bastone verso di me gridando –no, la mia vera cavia no!– ed un pugno d'aria mi colpì il petto scaraventandomi dall'altra parte della stanza. La bacchetta mi volò di mano.
Tardinius si diresse verso di me e mi lanciò un altro incantesimo, io cercai di fermarlo ma non ci riuscii e mi sollevò a mezzaria, sbattendomi verso un altro muro. Sembrava al tempo stesso arrabbiato e spaventato, non ragionava più. Se mai avesse ragionato.
–Vecchio mostro, è finita– disse Espasia, accanto all'ampolla nera, con in mano la bacchetta avvolta in un lembo di mantello.
Tardinius si girò di scatto per lanciare un incantesimo ma io mi buttai sulle sue gambe e lo feci cadere a terra. L'ampolla nera si ruppe e il bambino al suo interno cadde a terra, lo vidi dimenarsi, tossire e mugolare mentre Tardinius gli strisciava accanto –figlio mio!– gridò e io lo guardai stralunato. Espasia mi prese per un braccio e ci dirigemmo al piano di sotto. Non riuscivo a distogliere lo sguardo dal bambino per vedere cosa sarebbe successo. Aveva cinque o sei anni, mi parve, aprì gli occhi nella direzione del padre ma non lo vide, lanciò uno strillo acuto e si afflosciò morto. Tardinius piangeva.
Al piano di sotto riuscii a forzare l'incantesimo della porta che era studiato per difendere dal di fuori, non per trattenere dentro, Tokuga esultò, aveva con sè una torcia ed olio per lanterne. Lui ed Espasia appiccarono un incendio. Io mi ero trascinato fuori e trovai due cavalli legati lì vicino. In seguito seppi da Tokuga che avevamo passato tre giorni nella torre con Tardinius tutto preso da me, che mi avevano sentito gridare. Lui era riuscito a passare del cibo ad Espasia e stavano pensando ad un piano per liberarmi perché lei non poteva accedere al terzo piano, quando era stato sorpreso da due cavalieri neri venuti dall'est ed era scappato per farsi inseguire. Alla fine era riuscito ad ucciderli e a prendergli i cavalli. Quando Tardinius mi ha portato di sotto aveva lasciato aperta la botola ed Espasia era riuscita ad intrufolarsi.
La torre era ormai in fiamme e stavamo incendiando anche le stalle con gli abomini. Espasia volle assicurarsi che morissero rapidamente, senza dover aspettare che i loro organi interni collassassero. Intanto sentivamo le grida disperate di Tardinius, ma non erano di dolore. Io sono convinto che stesse piangendo suo figlio, per quanto sembrasse strano, o per i suoi esperimenti. Dubito che l'incendio l'abbia ucciso, era un mago troppo potente, ma non l'ho mai saputo perché abbiamo preferito scapparcene appena possibile.
Cavalcammo verso sud, io ed Espasia sullo stesso cavallo, Tokuga sull'altro. Voleva portarci nello Shogan, alla corte del suo signore, dalla quale era stato bandito per codardia anni addietro. Lui non avrebbe passato il confine senza il permesso del suo signore ma voleva che noi gli raccontassimo tutta la storia. Alla fine successe una cosa che secondo me era folle: il signore di Tokuga gli concesse di rientrare in patria per morire con onore. A Tokuga fu concesso il suicidio rituale dei guerrieri del suo paese che per disonore gli era stato negato in passato. Fu incredibile: non vidi mai una persona tanto contenta di morire e pensai che il mondo è proprio strano, anche se in qualche strano modo mi parve di capire. Piansi alla sua morte solenne ed anche Espasia.
Io e lei facemmo ancora un tratto di strada insieme. La accompagnai nelle due contee dove ritrovammo le sue compagne di sventura nel villaggio del soldato. Le lasciai il manto magico e la bacchetta e ripresi la strada verso casa”.

“È una storia incredibile” disse l'elfo “e preoccupante”.
“Si, soprattutto preoccupante” rispose Salamdar.
“Se c'è un nuovo Signore Oscuro nel Nuovo Continente, in questa Cancrelioth, la cosa è grave. Bisogna avvertire il mio signore, Tinwe Linto. Bisogna avvertire tutti”.
“È per questo che sono venuto qui” disse Salamdar.
“Ma il tuo generale ti ha mandato? Come ha reagito?”
“Non ha reagito: come ti ho detto non sa ancora niente. Appena sbarcato sono venuto direttamente qui, non ce la facevo a tornare a Ranespel. Non ce la facevo a raccontare o fare rapporto. Avevo sentito dire che qui ti mettono a tuo agio e così è stato” Salamdar sorrise “ho potuto finalmente togliermi il peso, anche se c'è un’altra cosa ancora che mi rode dentro” aggiunse a bassa voce.
“Di cosa si tratta?” chiese l'elfo distrattamente, ancora intontito dalle cose che aveva saputo.
“Niente, non preoccupatevi, ve ne parlerò domattina. Ormai si è fatto tardi e vorrei riposarmi. Forse riuscirò finalmente a riposarmi” sorrise Salamdar.
“Va bene ma tenete questo” e gli diede la bottiglia di cordiale alle mele. Salamdar accettò e salì per le sue stanze.
L'elfo era frenetico, pensava e ripensava a tutta la storia, angosciato e decise che per fare ordine nei suoi pensieri avrebbe pulito il bancone. Funzionò e dopo un'oretta riuscì a ragionare nuovamente con calma. Decise che avrebbe parlato l'indomani con i suoi compagni e avrebbero richiesto udienza al suo signore. Poi avrebbe chiesto a Salamdar di raccontare...
“Dannazione!” imprecò l'elfo, gettò via il bicchiere e si precipitò all'alloggio di Salamdar. Bussò e ribussò ma non rispose, allora scese a prendere le chiavi di riserva e quando risalì aprì la porta e...
Salamdar era morto.
L'aveva detto che non ce l’avrebbe fatta a riprendere il racconto, e che c'era ancora qualcosa che lo tormentava interiormente. Che stupido era stato a farlo andare via. Ora Salamdar era lì che penzolava fuori della finestra, appeso ad una corda.
“Si è gettato nella voragine” pensò l'elfo. “Ha concluso la sua vita, ma perché?” non gli sembrava fosse per le torture subite e poi l'aveva detto che c'era qualcos'altro.
Tirò su il corpo di Salamdar e lo depose sul letto.
Vide un libricino aperto sulla scrivania, accanto alla bottiglia di cordiale ancora chiusa, si avvicinò e lo lesse.
C'era stato scritto già da molto tempo tutto quello che aveva appena raccontato all'elfo eccetto che per il finale, le cui ultime pagine erano state appena vergate. Di seguito c'era un messaggio per lui.

“Grazie per l'ascolto, per la gentilezza. Ha significato molto per me.
Ho fatto quello che ho potuto, come ho potuto. Ho passato tutta una vita da solo, cercando di cavarmela come potevo, mentendo a chiunque a volte anche solo per il gusto di farlo. Ho scoperto come usare al meglio queste capacità, per fare anche qualcosa di buono, ma non me ne è mai venuto nulla. Non sto a giustificarmi perché non serve. Ho sempre tenuto duro, questo è il punto. Ora sono stanco.
Vi lascio la mia storia perché sento che è importante farla conoscere. Forse è l'unico vero gesto disinteressato che io sia mai stato capace di fare. Speravo in qualcosa di più che la riconoscenza da parte di Espasia, ma lei era di un'altra e non ci ho potuto fare niente.
Ma non è per questo che lo faccio.
Prima non l'ho detto ma lo faccio adesso perché da allora, da quando ho visto morire il figlio di Tardinius, non riesco a perdonarmi  una cosa. Di essere rimasto deluso.
Da allora non faccio che chiedermi se con un po' di tempo in più, l'esperimento sarebbe potuto riuscire. È un tarlo. È un pensiero che non va più via. Che ritorna, ritorna sempre.
Non posso permetterlo.
Consideratelo un sacrificio.


Addio”.

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