Racconti Dimenticati
Un Alchimista
“Ebbene, straniero, cosa vi porta
in questo luogo di ristoro?” l'elfo dietro il bancone stava pulendo il boccale
di birra che gli era appena stato restituito da quell'uomo dall'aria sfatta che
continuava ad ordinare da bere.
L'uomo aveva gli occhi arrossati
degli insonni ma sedeva con una certa compostezza dignitosa anche se un po'
forzata, sembrava sull'orlo di un tracollo. I suoi abiti erano puliti e ben
ordinati e contrastavano bizzarramente con la sua capigliatura corta e priva di
garbo. Reggeva il boccale con la mano destra che talora tremava nel portare il
liquore alle labbra ed il suo sguardo oscillava fra una fermezza ed intensità
degni d'un grande avventuriero ed un guizzare incerto e spaventato che si
presentava ogni qualvolta un'ombra si muovesse accanto a lui. In quei momenti
anche il resto del corpo sembrava tendersi, pronto a qualche scatto di follia,
al punto che un occhio disattento poteva facilmente attribuire quelle due
immagini a persone differenti. Effettivamente l'impressione complessiva emanata
da quell'individuo era di duplicità, sembrava un vaso rotto tenuto assieme da
lacci di cuoio usurati e pronti a rompersi alla prima occasione.
“Buon oste, come dite voi, ciò
che cerco è proprio ristoro. I miei nervi sono irreparabilmente scossi e
necessito di un lungo periodo di riposo perché possa dimenticare gli orrori cui
ho assistito negli ultimi tempi” rispose, persino la sua voce sembrava
rispecchiare lo stato precario in cui si trovava, passando occasionalmente da
un timbro caldo e profondo ad una stridula raucedine.
“Avete scelto il luogo giusto
messere, la corte di Re Tinwe Linto è il luogo dove i viaggiatori di tutti i
reami possono riposarsi e rinfrancarsi fra un viaggio e un’avventura, eppure
voi siete qui da almeno venti giorni ed ho potuto notare che siete sempre
rimasto in disparte a bere. Non vi siete mai unito alle danze, non avete mai
scambiato parola con gli altri avventori. Talvolta non scendete nemmeno nella
sala comune e trascorrete intere giornate in camera vostra” disse l'elfo
distrattamente mentre cominciò a strofinare il boccale ostentando una
concentrazione ed accuratezza tali che avrebbero fatto pensare stesse per
servirlo ad un re.
Con una nota di divertimento
l'uomo rispose “uomini, elfi o nani, gli osti sembrano essere tutti uguali,
quasi fossero una razza a parte. Credevo che a Valis Lobelas si venisse per
riposare e non per essere sorvegliati”.
“Teniamo a mantenere una certa
fama” rispose l'elfo, piccato “e quando ci accorgiamo di un cliente affranto
che non mostra segni di miglioramento, ci preoccupiamo di scoprire cosa non lo
aggrada”.
“Vi assicuro che non vi è alcuna
manchevolezza nel vostro servizio” si affrettò a chiarire l'uomo, poi con un
tono di rammarico “e se vi è qualcosa di manchevole, qui, quello sono io”.
“Cos'è che vi cruccia?”.
“Non ho il cuore di dirvelo”.
L'elfo posò allora risolutamente
il boccale che stava pulendo e tolse di mano all'uomo quello ancor mezzo pieno
di birra, poi prese due bicchierini da grappa ed una bottiglia piena d'un
liquore giallino dalle mensole del bancone, posò i bicchierini e li riempì.
“Bevete questo” disse “senza
storie”.
L'uomo rimase stupito dalla
reazione inaspettata dell'elfo e quando ne incrociò lo sguardo, lesse una
risolutezza con la quale evidentemente sentì di non poter combattere, poiché si
rassegnò a bere il suo bicchiere.
Un calore confortevole, quasi
rassicurante, si spanse nella gola dell'uomo che rimase stupito del sapore
zuccherino di quel liquore, tanto che si domandò se non si trattasse di una
pozione alchemica uscita da qualche laboratorio. Ma sarebbe stata una pozione
troppo maledettamente buona.
“Che cos'è?” domandò infine,
cedendo alla curiosità.
“Un cordiale a base di succo di
mela; i frutti provengono da una radura nascosta nella foresta Kalia, un luogo
che si dice solo chi è in pericolo di vita sia in grado di trovare”.
“Se è così, come fate ad averne
abbastanza da produrci una bevanda?” chiese furbescamente l'uomo e l'elfo
rispose con un sorrisetto.
“Suvvia, ora raccontatemi di voi.
Chi siete e da dove venite?”
L'uomo fece qualche altro sorso,
prima di rispondere. Nel frattempo il suo viso si era fatto più colorito.
“Mi chiamo Salamdar Dervishi,
porto il nome di mio nonno, un mercante sadiano che si era stabilito a Daconia.
Comunque non ho mai vissuto al sud, mio padre era scappato a Wankrurneel da
ragazzo, dove si era messo nei guai con la figlia di un borghesotto del posto.
Per questo non ho mai conosciuto mia madre e sono vissuto a Ranespel come un
ladruncolo. Comunque appena ho raggiunto l'età per andargli contro senza
buscarle, l'ho piantato in asso, sono scappato e mi sono arruolato nelle
Tuniche Nere. Ne sono uscito cinque anni fa, quando il Generale si è reso conto
che gli ero più utile come spia ed esploratore che come soldato effettivo”
“Dunque siete anche esperto di
magia”
“Ne so qualcosa! Ma non ho mai
voluto approfondire granché. I maghi viaggiano fin troppo con la testa, sarei
più un alchimista se m'interessasse sfacchinare, se proprio devo usare
incantesimi preferisco conservare le energie ed utilizzare bacchette, anelli,
pozioni, polveri ed altre sostanze o cerchi impressi su pergamene, tutta roba
già bell'e pronta per l'uso, qualche trucchetto me lo so anche preparare da me”
concludendo con l’ultimo sorso.
“Mi sembra giusto”.
Salamdar si era fatto servire un
altro bicchiere di cordiale e ci si stava avventando.
“Ebbene, continuate, cosa vi ha
portato qui?”
Arrestò il bicchiere a mezz'aria,
quasi versando qualche goccia di liquore.
“Circa un anno fa, il Generale mi
ha mandato in missione oltreoceano. Ho visto cose orribili. Al mio ritorno sono
venuto direttamente qui. Non ho la forza per tornare e fare rapporto”.
“Se continuate a restare solo con
i vostri ricordi, rischiate di non trovare mai più questa forza”.
“E come potrei mai fare?”
“Immergetevi totalmente in essi,
non cercate di sfuggir loro”.
Salamdar guardò l'elfo in
tralice, con aria sospetta “Chi vi dice che io li fugga?”
“Fuggire non è ciò che avete
fatto da quando siete tornato dalla vostra missione? Prima dal vostro Generale
ed ora che siete qui, dagli altri avventori e da me. Ma non potrà durare ancora
a lungo e lo sapete bene”.
L'uomo fissò l'elfo per alcuni
minuti, poi chinò lo sguardo, sorseggiò ancora del liquore come per farsi forza
e disse “beh, cominciò tutto quando il generale mi convocò...”
“Non era la prima volta che il
Generale delle Tuniche Nere decideva di avvalersi dei miei servigi in terre
straniere, specialmente considerando che il mio viso era fin troppo conosciuto
in certi ambienti di Ranespel, ma non mi era mai capitato d’essere spedito
oltreoceano.
–Abbiamo bisogno che tu vada sul Nuovo
Continente– mi disse con brutale semplicità – la tua missione è ovviamente
segreta e non ufficiale quindi non c’è bisogno che ti dica come dovrai muoverti–.
E non c’era bisogno davvero. 'Missione segreta non ufficiale' è un modo per
dire pochi soldi e un viaggio che peraltro sarà scomodo e noioso.
–La missione è molto semplice: è già
un anno, ormai, che il nostro ambasciatore ad Ofrald non invia notizie ma la
cosa di per se non è allarmante. Ad essere sconveniente è il fatto che i suoi rapporti negli anni precedenti non
giustificassero la sua premura a non essere richiamato in patria. Sia ben
chiaro, di motivazioni ce ne ha addotte a volontà, ma se questo può bastare a
placare la sete di burocrazia del Consiglio, non basta a convincere me. Ciò che
voglio da te è che tu vada a dare un’occhiata laggiù per capire di quali affari
il nostro ambasciatore non ci ha parlato–.
–Un modo come un altro per dire
che dopo i diverbi che ho avuto a Rhone, è meglio se mi tolgo di torno per un
po’?–.
–Vedila come vuoi, non nego che
averti qui potrebbe metterci in imbarazzo con i rhoniani, ma è anche vero che
ho bisogno di qualcuno laggiù. In ogni caso il tuo viaggio sarà lungo ed ho
tutta una serie di piccole commissioni da assegnarti lungo la strada–.
Per farla breve il mio calendario
si riempì di scadenze. Mi diede una decade di tempo per prepararmi e salutare
gli amici. Quest’ultima cosa la feci con diligente rapidità.
Partii, allora, ma non da solo.
Nel frattempo ero riuscito a convincere il Generale a farmi usare una copertura
e ne approfittai sino in fondo. Da quel momento ero un mercante di pozioni in
viaggio d’affari. Con ben due servi. E una serva.
Il Nuovo Continente mi aspettava.
Che nome stupido da dare ad una terra antica quanto la nostra e popolata da
civiltà di tutto rispetto come gli shogan. Feci un sorriso al pensiero di un
cartografo che, indispettito dal non poter imporre i suoi nomi alle terre dell’est,
si fosse vendicato riassumendo tutta la loro storia e mettendola al secondo
posto.
Ad ogni modo il mio
equipaggiamento di sopravvivenza coincideva per larga misura con le pozioni che
avrei dovuto vendere al mercato di Daconia e che alla fine vendetti davvero,
tuttavia mi ero riservato alcuni oggetti di particolare valore. Avevo con me
una serie di cerchi alchemici su pergamena, ciascuno adatto ad un particolare
utilizzo, tutti molto utili per lo spionaggio ed uno per le arti amatorie che
in caso di estrema necessità avrei potuto rifilare a qualche vecchio con troppi
soldi nelle tasche e poca sostanza fra le gambe. Il mantello magico era
intessuto con capelli di non so quale spirito notturno ed aveva la virtù di
farmi letteralmente sparire se usato di notte, che fosse vero o meno, in
passato non ho mai potuto lamentarmene. Alla cintura tenevo un vero e proprio
tesoro, una verga di ferro azzurro del fencedhor con un diamante all’estremità
che teneva accumulata una forte carica elettrica che poteva essere scaricata
parzialmente od integralmente su un bersaglio, un’arma di questo genere poteva
persino uccidere un orco con un solo colpo. Dovevo tenerla avvolta in un fodero
di cuoio e adoperarla utilizzando dei guanti appositi dal momento che
funzionava a contatto ma avevo letto da qualche parte che se mi fossi
addentrato nei mondi spirituali, avrei potuto utilizzarla anche a distanza.
Arrivare a Daconia fu semplice.
Li' mi toccarono quelle commissioni di cui parlava il Generale.
Andai a visitare un paio di
senatori della repubblica, uomini molto affabili come si confà a quel genere di
politicanti che trae il proprio potere dal numero di persone che riesce ad
abbindolare. Uno di loro mi fece anche velatamente delle offerte di lavoro che
io non rifiutai ne' accettai.
A Daconia mi stupii di trovare
molte persone con gli stessi lineamenti da sangue misto come i miei. Era
evidente dalla scarsa considerazione per noi mezzosangue, che fosse un paese
perennemente in guerra con i sadiani, ma a quanto vedevo, si trattava di
qualcosa che non toccava il popolo e la vita quotidiana più di quanto può farlo
un saltuario arruolamento forzato. Forse è perché i mercanti della città non
erano nemmeno granché toccati da questa sorte e comunque ci vivevano di scambi
con la Sadia. Mi domandai allora cosa sarebbe successo se mi fossi addentrato
nei villaggi sparsi sul territorio interno o lungo le sponde del lago Kentar,
fatti di contadini, boscaioli, pescatori o più in generale da quella fetta di
popolazione rurale che solitamente combatte le guerre iniziate dai ricchi
cittadini. Alcune fantasie spensero rapidamente la mia curiosità, ricordandomi
la mia missione.
L'episodio più curioso fu quando
portai alcune comunicazioni ad un locandiere del quartiere mercantile che
sospettai essere in qualche modo legato alla malavita locale; aveva al suo
servizio un omino bizzarro, alto fino alle mie costole, con occhi sottili e
lineamenti delicati. Aveva il modo di fare di un bambino, ma mi dissero avesse
una trentina d'anni e che fosse stato concepito per magia dagli elfi della
foresta; capii subito il fraintendimento, non avendo mai visto gli elfi
d’occidente, chiamavano in quel modo i folletti della foresta. Chiesi a loro
informazioni sul nuovo continente e mi dissero che chi tornava da laggiù,
portava addosso i segni di qualche malessere dell’animo. Sguardi spenti,
silenzio chiuso, disinteresse, spesso una rabbia cieca pervadeva i più estrosi
e soprattutto a sentirli parlare sembrava che al mondo tutto fosse inutile. Ma
poi inutile a che?
In ogni caso questo locandiere mi
mise in contatto con il capitano della nave che mi avrebbe portato sul Nuovo
Continente. Un uomo tarchiato, robusto e con due baffoni bianchi e macchiati
del giallo dei fumatori di pipa. Tutto sommato dava l'impressione di un tipo
affidabile, solido e la sua voce non tradiva le aspettative.
–Il viaggio sarà lungo– mi disse
un po' rauco, sembrava si fosse appena rimesso da una influenza – e scomodo–
chissà come, me l'aspettavo – ma abbastanza sicuro. Partiremo assieme ad altre
navi commerciali e saremo scortati per tenere lontani i pirati sadiani. Non
dovrebbero essercene perché è appena finita una guerra in favore loro e sono
tutti allegri e sazi. Adesso devono sbeffeggiarci e finché Daconia non si sarà
leccata le ferite a sufficienza non ricominceranno i conflitti–.
La solita politica, insomma, la
storia che si ripete. Gli chiesi piuttosto di parlarmi di Ofrald e lui fece una
risata divertita.
–Di Ofrald posso dirti che la
prima impressione è quasi sempre quella giusta, anche perché per alcuni
coincide con l'ultima, ti posso anticipare che la chiamano tutti “La fogna
dell'est”–.
Molto interessante, pensai, cosa
può mai spingere l'ambasciatore di un paese pulito, colto e civilizzato come Ranespel a mettere radici nella “Fogna dell'est”? Forse il Generale non
voleva solo allontanarmi per qualche tempo, dopotutto.
Come promesso, il viaggio si
rivelò scomodo, non quanto alcuni altri vissuti in passato, ma decisamente più
lungo. Furono quaranta o cinquanta giorni, inframezzate dall'approdo in alcune
città intermedie. Quando raggiungemmo Daltore ci eravamo lasciati alle spalle
il cosiddetto mar Fencedath, che era più che altro un enorme golfo, e superammo
i confini di Daconia. Da lì procedemmo verso nord est e ci fermammo a Nai, un
piccolo villaggio fortificato su di un'isola grande quanto un paio di piccoli
regni. Mi divertii a vedere così tanti sadiani attorno a me. La loro pelle
ambrata, quasi nera era dieci volte la mia, mi facevano sentire un bianco
fencedhoriano. I loro tratti esotici mi stupivano. Non è che non li avessi mai
visti prima, ma un conto era vederli circondati da bianchi ed un conto essere
il bianco circondato da loro, tutto sommato mi piacque quella ventata di
novità. Devo ammettere che il mondo è un posto grande e variegato.
Da quel momento iniziò la tappa
più lunga del viaggio, fino ad Iek, altro villaggio sorto su una grande isola
vulcanica, che aveva più l'aria di essere una grossa stazione di posta, che un
centro abitato.
La vera sorpresa fu Antral, una
grande città, capitale di un fiorente impero commerciale, sorta su un
arcipelago. Era composta da tante isolette a breve distanza fra loro, congiunte
da moltissimi ponti e costeggiate da canali navigabili con imbarcazioni
apposite. Nella cinta muraria esterna, si trattava di ponti di pietra
fortificati dai quali era possibile calare grate di ferro che si conficcavano
nel basso fondale sabbioso dell'arcipelago all'interno del quale solo delle
chiatte o delle scialuppe potevano addentrarsi; nella parte interna erano eleganti
ponti di congiunzione, quasi sempre di legno e capaci di sollevarsi
all'occorrenza. L'ingresso principale della città era bellissimo, un ponte
particolarmente alto e maestoso che si apriva ad una laguna di svariate
centinaia di metri quadrati al cui centro spuntava direttamente dall'acqua una
stele altissima. Su quella stele vi era scolpito un bassorilievo che vi si
avvolgeva a nastro arrivando fino in cima. Non so dire cosa vi fosse
rappresentato, ma mi dissero che era un monumento magico, dedicato al mare. Non
a Velomé, il signore degli spiriti dell'acqua, ma al mare stesso. Capii dalle
alghe che vi crescevano alla base, di quanto il livello del mare fosse in grado
di alzarsi con la marea e fui stupito che fosse così poco. Chissà se quella
città aveva mai visto una tempesta, un uragano di quelli di cui parlano a voce
bassa e spaventata i marinai o le onde anomale che seguono i terremoti e che a
Daconia chiamano Velomere. Non ebbi il tempo di scoprirlo che eravamo già
ripartiti.
Giungere ad Ofrald, qualche
giorno dopo, mi fece una strana impressione. In parte capii quello che aveva
voluto dirmi il capitano Nigel quando eravamo a Daconia, e i velati commenti
nervosi dei marinai, mano mano che ci avvicinavamo.
La prima cosa che ti colpisce, di
Ofrald, è la puzza. È un che' di rancido, diverso dai lezzi tipici delle grandi
città in cui uomini ed animali convivono e talvolta dividono gli spazi. Quelle
erano puzze “vive”, mentre Ofrald ti dava l'impressione del latte che quando si
corrompe diventa acido o della carne bruciata, di quegli odori, insomma, a cui
ti sembra di non poterti mai abituare.
Col tempo, capii che
quell'impressione era generalizzabile a molte altre cose.
I mendicanti onnipresenti
sembravano essersi radunati ad Ofrald da tutto il mondo, ma nei loro occhi non
ci leggevi la furbizia o la recitazione o la speranza o addirittura la saggezza
che poteva capitarti altrove, sembravano tutti abbandonati alla loro
condizione, avviliti. Ad alcuni diedi del denaro ma non ringraziarono, un paio
di loro sembrarono non accorgersene nemmeno e quando feci il gesto di sottrarglielo; ne ebbi conferma quando lo feci per davvero.
La gente sembrava spaventata e
diffidente, nessuno guardava gli altri negli occhi e se qualcuno veniva
sorpreso a farlo, subito abbassava lo sguardo e proseguiva per la sua strada.
Ovviamente questo succede anche altrove ed è un fenomeno diffuso nelle grandi
città, in cui la vita a strettissimo contatto con altre persone, ti porta a
cercare l’intimità nei pensieri, ma qui sembrava esasperato oltre misura. Più
che una ricerca di intimità sembrava che si vivesse in una costante, paranoica
paura e sfiducia reciproca, come se chiunque fosse pronto ad accoltellarti per
un nonnulla.
Anche il caos della città era
diverso che altrove. Una certa sciattezza l'avevo vista anche a Daconia ed in
generale in tutte le città calde del sud, dove la gente irrequieta e piena
d'energia sembrava industriarsi per trovare il proprio modo di fare le cose,
anche se a volte sembrava tutto un po' affrettato o dannoso. Qui, al contrario,
regnava l'approssimazione fine a se stessa.
Ad un certo punto cominciai a
pensare di essermi immerso in qualche strato del mondo degli spiriti o che
quello fosse tutto un sogno, col senno di poi mi rendo conto di non essermi allontanato
troppo dalla realtà, di qualunque realtà si parli.
I primi giorni li trascorsi così
guardandomi intorno. Presi una stanza in una locanda che era una topaia, mi
fece quasi rimpiangere la nave, e costava anche troppo!
Cercai di scambiare qualche
parola con la gente del posto, in un modo o nell'altro dovevo ambientarmi e
capire come muovermi al meglio, ma soprattutto, quali piedi era meglio non
pestare. Non subito, almeno.
In mezzo alle tante notizie
provenienti dal regno degli Shogan, dalle due contee, ed altri mille posti
inutili, un nome cominciò ad emergere spesso dalle conversazioni: Cancrelioth.
Mi ci volle un po' per capire che non era una persona o una malattia, ma un
posto. Un posto da cui arrivavano delle persone. Persone che parevano malate,
da come erano descritte.
Certi uomini dall'aria strana si
diceva venissero da Cancrelioth, avevano quasi tutti l'aria truce dei peggiori
tagliagole ed imparai a riconoscerli ed evitarli.
Una sera ebbi modo di
interrogarne uno in un vicolo scuro nel quale mi aveva scambiato per una
potenziale vittima. In verità mi assalirono in due. Avevo cenato in una bettola
nel quartiere degli artigiani per avvicinare questo falegname che aveva
lavorato per l'ambasciatore. Questo mi disse cose interessati su certe forniture
che si era fatto fare il mio uomo, ma soltanto in seguito avrei potuto
ricollegare il tutto e sul momento venni distratto. I due energumeni mi
adocchiarono dopo una mezz'oretta che erano entrati per bere. Li vidi con la
coda dell'occhio che si sgomitavano e lanciavano occhiate d'intesa: la mia
pelle mi aveva tradito. O forse no. Decisi di approfittarne.
Lasciai il mio commensale dopo un
paio d'ore di chiacchiere inutili fatte giusto per innervosire i miei
inseguitori, poi pagai con una moneta d'argento, lasciando anche una bella
mancia per invogliarli nei loro intenti e mi alzai dal tavolo fingendo di
barcollare. Andai verso l'uscita badando bene ai loro movimenti, mi infilai il
mantello ed uscii.
I miei nuovi amici mi seguirono
baldanzosi, con quella sicumera di chi è abituato a fare il gradasso sapendo
che non verrà fermato. Chi ero io per deluderli? Mi guardai indietro, feci una
faccia spaventata e accelerai il passo infilandomi nel vicolo più vicino. Ebbi
quei pochi istanti di vantaggio necessari a calarmi il cappuccio sulla testa
per confondermi nell'ombra appiattendomi contro un muro e infilarmi i guanti di
cuoio.
Quando arrivarono e non mi videro
rimasero interdetti ed io agii. Piantai la bacchetta fra le scapole del più
grosso dei due, da sopra i vestiti per non ucciderlo, non subito almeno, e
questo stramazzò al suolo, fulminato. L'altro sferrò qualche fendente con una
piccola daga, ma a vuoto perché in quel buio ero poco meno di una sagoma scura
per lui. Non mi ci volle molto per rifilargli un calcio su un ginocchio e un
bel pugno ai reni.
Passai allora ad interrogarlo. A
quanto mi disse nessuno di loro era meno ofraldiano degli altri, l'unica
differenza era che ogni tanto si spingevano lungo la scarpata nera, la strada
che congiungeva Ofrald e Cancrelioth, ed avevano rapporti con alcune persone
che dicevano di venire da li'. Non volle dirmi nulla di quelle persone e la
minaccia di evirazione non sembrò sortire effetti, però mi disse che il Primo
Conte e la corte dei conti di Ofrald avevano sicuramente dei contatti molto
stretti con il governo di Cancrelioth.
–Non ho idea di che affari
possano fare i porci del palazzo – mi di disse – con gli uomini neri – così
chiamavano la gente di laggiù – ma di sicuro non è nulla di divertente, ogni
tanto partono dei carri pieni di galeotti verso la scarpata nera, ma non sono
mai tornati indietro. Nemmeno le guardie che li portavano. Certe altre volte
abbiamo visto partire dei carri chiusi e io ci scommetto che dentro non c'erano
galeotti. Nemmeno degli uomini, se te lo devo dire... o degli adulti. Ma tanto
nessuno te lo dirà mai, che li vedono, meglio far finta di niente–. So
distinguere una balla da una verità, di solito, vado ad intuito, ed il mio
intuito mi disse che non stava mentendo. Mi chiesi chi era più apprezzabile: la
brava gente che faceva finta di niente oppure questo avanzo di galera che la
merda la guardava e ci camminava dentro? In realtà non era la prima volta che
me lo domandavo e con tutta sincerità, non sono mai riuscito a trovare una risposta
soddisfacente. Mi saltò alla mente, così senza motivo, la frase che disse Ark
Nejo quando abbandonò la sua scuola di magia e si ritirò a vita privata: “Tutto
scorre”.
Denudai i due simpaticoni e li
lasciai li', legati con i loro stessi abiti tagliuzzati e adibiti a corde. Me
ne andai con diversi interrogativi ma in ogni caso ora avevo una pista.
Era evidente che c'era un
collegamento fra il governo di Ofrald e quello di Cancrelioth, qualcosa che non
si diceva in giro, qualcosa di nascosto. E nascosto fra le righe dei rapporti
dell'ambasciatore, era quel qualcosa che aveva fatto pizzicare il naso del
Generale e che ora faceva pizzicare il mio. Era una pista debole, debolissima,
in realtà se fossi stato una Tunica Nera, di regola non avrei dovuto considerarla
una pista perché priva di quei criteri di oggettività e connessione logica che
ai burocrati del Consiglio piacevano tanto. Ma se neanche le Tuniche Nere
rispettavano quella regola, io che nemmeno lo ero potevo fare quel che mi
pareva, a patto di sopravvivere. E poi, in tutto quel tempo non avevo cavato
nulla di serio sull'ambasciatore e i suoi affari, eccetto il fatto che non lo
si vedeva spesso in giro, nella peggiore delle ipotesi avrei mascherato il mio
fallimento dando al generale una bistecca al posto della salsiccia che mi aveva
chiesto.
Ormai era arrivato il momento di
muoversi.”
Salamdar fece una pausa,
massaggiandosi gli occhi. Aveva l'aria stanca. Evidentemente parlare così a
lungo l'aveva logorato, o forse era stato piuttosto lo sforzo di ricordare le
proprie vicende.
L'elfo che nel frattempo aveva
continuato a versargli da bere con le sue mani sottili e delicate, ma ferme e
sicure, lo stava ora osservando con estrema attenzione. Sembrava che cercasse
di carpire la storia con i suoi occhi penetranti, andando al di la' del
semplice racconto, come se potesse vedere i pensieri ed i ricordi stessi di
Salamdar.
Inaspettatamente disse “forse è
meglio riposarsi per questa sera, non trovate? Potremo continuare domani il
racconto, nel frattempo potrete rilassarvi e recuperare le forze”.
“No” rispose Salamdar con voce
piatta “preferisco continuare”.
L'elfo corrucciò la fronte e lo
squadrò con aria dubbiosa “secondo me avete bisogno di riposare prima”.
A questo punto Salamdar gli
lanciò uno sguardo obliquo. Non sembrava più stanco o sull'orlo del tracollo e
l'ombra di un sorriso parve aleggiargli sul volto, poi tutto cambiò e tornò ad
essere quello di prima “ho raccolto il mio coraggio per parlarne ora, se
interrompessi ho paura che non riuscirei più a proseguire, non credo che mi
lascerei convincere due volte. Ve ne prego, datemi solo qualche istante per
riordinare le idee e permettetemi di riprendere il discorso, sono certo che
quando avrò vuotato il sacco, mi sentirò meglio” e stavolta sorrise davvero.
L'elfo annuì piano, poco
convinto, “prendetevi tutto il tempo che volete, nel frattempo pulirò i boccali
lasciati da quel nano laggiù”.
Passarono pochi minuti quando
l'elfo tornò e trovò l'uomo ad aspettarlo, pronto a riprendere. Con un po' di
titubanza gli chiese di continuare.
“Finalmente decisi che era
arrivato il momento di far visita all'ambasciatore. Da quel che mi aveva detto
il Generale, si chiamava Tardinio Nileste almeno finché non era entrato
nell'Ordine di Ark col nome talare di Tardinius, pare che fosse un tipo arguto
e ambizioso, originario di Wankrurneel e figlio di un borghese piuttosto ricco.
Tardinius aveva scalato rapidamente i primi gradi dell'ordine ma non volle
abbracciare i voti necessari a salire ulteriormente. Capita spesso nell'Ordine
di Ark: è il più antico, ricco e prestigioso però è raro che i suoi membri
salgano oltre un certo livello nel percorso di iniziazione e più spesso si
dedicano ad altre cose come la politica. Tardinius era uno di questi. Il suo
primo incarico era stato nella sua città natale, ma durò poco e per qualche
ragione convinse il suo superiore a farsi mandare ad Ofrald. L'incarico, qui,
era durato diversi anni senza intoppi finché non aveva cominciato a far passare
sempre più tempo fra un dispaccio e l'altro.
Nello spionaggio è importante
saper arrivare a conclusioni affrettate: il più delle volte c'è ben poco di
segreto da spiare quindi si risparmia tempo e fatica basandosi sulle apparenze,
altre volte di tempo te ne serve di più e devi saper inventare qualcosa da dare
al tuo capo e farlo arrovellare mentre cerchi altro, altre volte ancora serve a
te qualcosa su cui arrovellarti e da verificare. Per quanto riguardava
Tardinius, avevo già deciso che stava tradendo la patria e che stringeva
accordi segreti con questa Cancrelioth per chissà quali fini personali.
Insomma, avevo il “cosa”, mi mancava il “come” e soprattutto il “perché”. Forse la sto facendo un po' facile, ma è
così. Va' in un posto, parla con la gente, ascolta le loro paranoie, seguile e
troverai il mago che stai cercando nel mentre che ci infila dentro le mani come
un orso con un alveare pieno di miele. È la natura.
Incominciai col prendere di mira
i sottoposti di Tardinius, avvicinai il suo maggiordomo (quanto poco ci vuole
per farne ubriacare uno) e mi sorprese scoprire che il nostro ambasciatore
ormai non si faceva vedere che di rado in città. Preferiva forse Cancrelioth?
Decisi di cogliere la palla al balzo, così una notte m'infilai il manto magico
e mi intrufolai di nascosto nell'ambasciata, un edificio di tre piani squadrato
e disadorno, con le finestre sbarrate al pian terreno ed un portone robusto che
sbarrava l'accesso.
Superare le guardie all'ingresso
fu semplice perché non c'erano. Diedi da bere ad un barbone e lo pagai per
andare a schiamazzare sotto l'ambasciata. Il custode in vestaglia cercò di
mandarlo via ma fu costretto ad aprire il portoncino per dargli una ramazzata,
io ne approfittai per sgattaiolare dentro.
Mi ero già fatto spiegare la
disposizione dei locali, per cui non fu difficile orientarmi. Trovai subito le
stanze dello stalliere, salii le scale fino al terzo piano evitando
accuratamente gli appartamenti del maggiordomo.
Tutto il terzo piano era composto
da un’ampia sala ben arredata con divani e poltrone, una libreria, un tavolino
intarsiato e qualche sedia. Da un lato si apriva la terrazza, nel lato accanto
c'era la porta dello studio. La aprii. La stanza puzzava di chiuso, la
finestrella era serrata, la scrivania in legno di noce era sommersa di rotoli
di pergamena e qualche libro, con una rapida occhiata capii che non c'era
niente di utile. Un cassetto era chiuso a chiave ma lo aprii con facilità,
dentro c'erano solo delle lettere scritte in lingua straniera, forse erano
quegli strani caratteri usati dagli shoganesi, alcune altre erano in
fencedhoriano, tutte provenienti da Ranespel. Altro cassetto, solo qualche
sigillo e ceralacca.
C'era un piccolo baule, provai a
forzarlo ma non ci riuscii e andai su tutte le furie, mi venne mal di testa e
cominciai a sudare, poi ebbi le vertigini. Riconobbi i segni di un incantesimo
protettivo. In questi casi bisogna lasciar perdere. Aprire il baule avrebbe
significato rompere l'incantesimo e se non sai ripristinarlo tanto vale
lasciare anche il proprio nome, indirizzo e ritratto. Col senno di poi, avrei
anche potuto farlo, ma col senno di poi ci si riempiono le tombe. Andai invece
a perquisire la camera da letto nella speranza di trovare qualcos'altro di
utile, magari un diario delle proprie memorie in cui un mago preda di un
solitario delirio di onnipotenza avrebbe vergato i propri progetti di conquista
del mondo o cose simili.
Ovviamente non c'era, forse era
nel baule, ma trovai qualcosa di molto più interessante: un atto di proprietà.
I maghi sono tutti uguali, così competitivi e presi dai loro studi che mettono
sotto chiave libri vetusti pieni di paroloni, pozioni e veleni, oggetti dalle
più svariate proprietà per nascondere i propri segreti professionali e poi
lasciano nel comodino le indicazioni su quello che comprano senza rendersi
conto che è da lì che una persona avveduta può ricavare tutto ciò che le
occorre.
A quanto pareva, il nostro
Tardinius si era comprato un vecchio rudere proprio lungo quella che oggi
chiamano la “scarpata nera”, riportata nel documento col nome ufficiale di
Valsasso. C'erano anche dei contratti con maniscalchi, falegnami e architetti
per la ricostruzione del rudere. Qualcosa mi disse che l'aveva trasformato in
una torre e che stavolta gli ofraldiani non avevano fatto un lavoro
approssimativo. I maghi adorano le torri. Servono sempre quando devi combinare
qualcosa di grosso.
Adesso la pista stava diventando
concreta. Mi sentivo nervoso ma non sapevo ancora perché. Sgattaiolai via
dall'ambasciata con ancora più facilità dell'entrata, perché il custode aveva
richiuso la porta fregandosene di bloccarla. Evviva l'approssimazione.
Tornai alla locanda dove
alloggiavo per stabilire i prossimi passi. Avevo già in mente il quadro della
situazione, abbastanza tipico, ora dovevo solo riempirlo di contenuti. È chiaro
che potevo sbagliarmi, più o meno come si può sbagliare il sole a sorgere
sbadatamente da ovest anziché da est. Non era la prima volta che spiavo
qualcuno, il segreto sta nel capire le abitudini del proprio bersaglio per
capire quando fa qualcosa di strano. Qui era diverso. Un ambasciatore ha tutta
una serie di abitudini legate al suo ruolo e il Generale si era già accorto da
un altro continente che c'era stata qualche stranezza. Io che ero sul posto,
invece, non vedevo nessuna stranezza perché qui Tardinius semplicemente non
stava più facendo l'ambasciatore. Faceva qualcos'altro. Scrissi queste cose
criptandole in una missiva apparentemente banale che avrei spedito l'indomani
al Generale. Tuttavia non potevo tornare indietro o il Generale mi avrebbe...
diciamo che non gli sarebbe piaciuto che tornassi con così poco.
Il minimo che potevo fare era
andare a questo rudere e almeno verificare se era stato trasformato in una
torre. Ma se non volevo essere fustigato avrei dovuto darci un'occhiata anche
dentro.
Ci misi tre giorni per trovare un
paio di persone che mi avrebbero guidato per questa scarpata nera senza
sgozzarmi nottetempo. Erano entrambi mercenari uno veniva da Mitiran, sul primo
continente, l'altro era uno shoganese bassino e con gli occhi a mandorla, in
questo ricordava un po' gli elfi. Partimmo la sera stessa senza troppi
convenevoli e loro accettarono la mia richiesta di non battere i sentieri
frequentati.
La città chiudeva le porte al
tramonto, noi ci incamminammo verso est seguendo la strada principale
fintantoché eravamo visibili, poi la abbandonammo.
Passammo la notte a camminare
sotto la luna, poi tramontò anch'essa e ci fermammo a dormire. L'indomani
riprendemmo il cammino col sole, ci fermammo nelle ore più calde e riprendemmo
al pomeriggio. Avevo calcolato i tempi, il rudere non era lontanissimo ma
volevo andar piano e raggiungerlo
all'imbrunire se non proprio di sera.
Durante il viaggio ebbi modo di
comprendere perché quel luogo si chiamasse Valsasso. Era una pianura di terra
brulla e sassosa che si stendeva dalle porte di Ofrald e si addentrava
nell'entroterra verso est. Parlando con i miei compagni di viaggio seppi che
era stata ribattezzata “la scarpata nera” per via di Cancrelioth che era sorta
alla sua estremità orientale e che una volta si diceva avesse le porte nere,
una volta i bastioni neri, un'altra volta ancora fosse sovrastata notte e
giorno da nuvoloni neri.
E a proposito di nuvoloni, il
secondo giorno di marcia venne giù un temporale improvviso che ci rallentò e ci
costrinse a ripararci in una boscaglia su una collinetta vicinissima alla
strada principale. Ci fermammo per la sera e io bestemmiai perché dovevo
rifarmi i conti.
Quella notte l'umidità ti entrava
nelle ossa, ci volle polvere pirica ed olio di fhoranor per accendere la legna.
Il vento s'insinuava fra gli alberi e pareva sussurrarci all'orecchie parole
lontane. Quella notte facemmo tutti degli incubi e ci svegliammo a metà del
sonno, sudati, stanchi e inquieti. Il buio tutto intorno si era fatto pesante e
la falce di luna illuminava appena i contorni delle cose, avevamo la sensazione
di essere osservati.
–Che succede?– chiese il
mitiraniano a bassa voce.
–Sono gli oni, i diavoli della
notte– rispose l'orientale.
– È vero – confermai – sta
succedendo qualcosa: tutte queste sensazioni, questo brutto presentimento,
l'aria pesante... sono tutti segnali che gli spiriti sono vicinissimi al mondo
della veglia, vuol dire che c'è di mezzo vera e propria magia–.
–Guardate lì!– disse il
mitiraniano indicando un carro trainato da un paio di cavalli stanchi e
scortato da tre soldati a cavallo con delle torce in mano.
Il carro si avvicinò alla
boscaglia dov'eravamo riparati e la superò, d'un tratto però i cavalli
s'innervosirono e comincarono a sbuffare e fare le bizze. Io guardai il carro e
mi accorsi che era uno di quelli chiusi e dal contenuto ignoto di cui mi aveva
parlato il tagliagole.
C'era una specie di ombra nera
che sostava ai margini del mio campo visivo e mi scrutava, il confine si
assottigliava sempre di più e compresi che era venuto il momento di prendere
dei provvedimenti. Cominciai a formulare un incantesimo di protezione e poi
dissi ai miei mercenari di dare un nome alle loro armi.
–Perché?– si opposero.
– È una magia di base, serve a
combattere anima e corpo contro nemici che normalmente esistono solo nei sogni.
Durante le guerre sacre contro Rolcan c'era tutto un addestramento per i
soldati, adesso non c'è tempo per le cose raffinate per cui fate come vi dico o
qui finisce male–.
Ci misero un po' ma obbedirono.
Nel frattempo i soldati avevano ripreso il controllo dei cavalli e si stavano
consultando col cocchiere per decidere che fare, quando ad un tratto cominciò a
sentirsi una puzza tremenda e uno dei cavalli disarcionò il suo cavaliere.
Stavo ancora cercando di capire da
dove arrivasse quella puzza quando alla luce delle torce dei soldati comparve
improvvisamente questo mostro alto un più di due metri, con due occhi incassati
nel cranio pelato e privo di orecchie. La bocca sbavante era una fessura
rotonda e senza labbra. Era grasso e roseo, la pelle sembrava cuoio invecchiato
e grinzoso. Fu un attimo che vomitò addosso al soldato disarcionato e questo
cominciò a gridare come se l'avessero ustionato con olio bollente.
Gli altri due sguainarono subito
le spade e cominciarono a colpirlo ma senza fargli nulla, sembrava colpissero
un grosso barilotto ricoperto di cuoio imbottito e trasbordante: gli affondi
non infilzavano e i fendenti si impigliavano nella carne. I soldati
cominciarono a usare le torce infuocate per tenerlo lontano e fu solo quando il
cocchiere venne ucciso che mi accorsi del collare di ferro alla gola del mostro
e dei tre briganti che lo accompagnavano.
A quel punto decisi di
intervenire: dissi ai miei mercenari di occuparsi dei briganti mentre io
pensavo a qualcosa per quel mostro. Obbedirono e sgattaiolarono senza troppi
problemi alle spalle dei briganti. Nel frattempo io avevo srotolato una delle
pergamene da combattimento che mi ero tenuto, dentro c'era una freccia
ricoperta di polvere pirica; la incoccai con un piccolo arco e la puntai sul
brigante che comandava il mostro col guinzaglio.
Una delle due guardie rimanenti
era stata abbattuta da un pugno di quel mostro che ora gli stava vomitando
addosso. L'altro soldato era terrorizzato, sentendosi accerchiato, quando
saltarono fuori i miei mercenari che uccisero al volo il primo dei briganti e
ingaggiarono battaglia con l'altro.
A quel punto la mia freccia partì
e s'incendiò a mezz'aria per conficcarsi nel petto del brigante col guinzaglio
e lo fece diventare una torcia umana che illuminò tutto il campo. La bestia era
adesso senza padrone e si era avventata su uno dei cavalli.
Il soldato, che non aveva ancora
capito cosa stesse succedendo, si era ritirato in cima al carro con gli occhi
pazzi di paura e l'ultimo brigante aveva ferito il mitiraniano prima di essere
atterrato dallo shoganese.
Restava solo quel mostro e non
avevo idea di come gestirlo. Senza pensarci troppo mi infilai i guanti di cuoio
e gli puntai contro la bacchetta, sperando che fossimo abbastanza addentro ai
mondi spirituali da farla funzionare al massimo.
Così fu e dal diamante sulla
punta si sprigionò un lampo che andò a colpire alla testa il mostro, che
intanto stava mangiando un cavallo, per fulminarlo e arrostirlo.
–Chi siete?!– gridò con voce
stridula il soldato rimasto sul carro, nel frattempo cominciai a sentir bussare
sulle pareti del carro.
Ora che era tutto finito mi
guardai intorno e capii di aver rovinato tutta la missione segreta. Imprecai
per un paio di minuti buoni mentre i miei compagni legavano il brigante ancora
vivo e facevano scendere dal carro il soldato. Una volta calmatolo e
rassicuratolo delle nostre buone intenzioni, ci togliemmo dalla strada e ci
accampammo.
–Sono una delle guardie di Ofrald–
disse il soldato, un ragazzino spaurito dai capelli rossi e pieno di lentiggini
–il comandante una sera ci ha dato in fretta e furia l'incarico di portare questo carro verso est,
lungo la scarpata. Ci ha detto che è pieno di galeotti della peggior specie e
che andavano mandati ai lavori forzati. Dovevamo incontrare lungo la strada una
pattuglia che li avrebbe presi in custodia. Mi era sceso un magone addosso sin
dalla partenza ma ora sono sicuro che ci abbiano mandati a morire, quella di
prima era un'imboscata– a queste parole guardai in faccia il brigante per
vedere se reagiva ma sembrava troppo spaventato per tradirsi sotto altri
aspetti.
–Ma voi cosa ci facevate qui?–
chiese.
–Domandalo al capo, noi siamo
pagati come scorta– disse il mitiraniano mentre si fasciava il braccio, indicando
me.
–Sono un esploratore– dissi –lavoro
per un mercante d'armi daconiano, uno facoltoso e ambizioso, gli è capitato di
comprare un po' di queste– e indicai la bacchetta che ormai avevo usato e
dovevo giustificare –di contrabbando e mi ha mandato in giro a vedere se
c'erano acquirenti interessati. Sapete, questa è roba pericolosa, l'avete
visto, inoltre se si venisse a sapere che ce le ha lui... perciò vuole venderle
lontano. Se sapesse che ho usato quella dimostrativa per gli affari miei mi
farebbe tagliare una mano–.
I galeotti nel carro
ricominciarono a bussare e sentimmo delle vociare provenire dall'interno.
–Apriamo un po' questa cella–
dissi, ma il soldato tentò di fermarmi: –no per carità! Stanotte ho già passato
abbastanza guai!–.
–I guai non sono finiti, temo, ma
ho il sospetto che saranno altra natura– risposi io, intristito dall'idea che
mi ero fatto di ciò che avrei trovato.
I miei sospetti si rivelarono
fondati quando, aperto il lucchetto del carro, ne uscirono sei donne più o meno
anziane dai vestiti laceri, una giovane donna magrolina dai capelli scuri,
quella che aveva bussato per farsi sentire da noi, e due bambini.”
“State dicendo che non erano
galeotti ma donne e bambini?” disse l'elfo, angosciato, mentre si versava del
brandy. Ormai aveva incominciato a bere anche lui mentre Salamdar gli
raccontava la sua assurda storia.
Gli occhi di Salamdar si velarono
di lagrime ed un'espressione di rimpianto gli attraversò il volto. Rimase in
silenzio per un po', cercando di trattenersi, poi gli scoppiarono dei
singhiozzi in gola che si trasformarono un vero e proprio pianto. L'elfo rimase
sbalordito e gli versò un altro bicchiere di cordiale, gli posò una mano sulla
spalla e lo invitò a bere.
Di nuovo il cordiale ebbe un
effetto positivo sull'uomo che si ricompose e dopo un altro po' di silenzio.
“Se non volete continuare il
racconto, lo capisco...” incominciò l'elfo ma Salamdar lo interruppe “no, vi
prego... avevate ragione a dire che mi fa bene, io ora ho cominciato e non so
se ce la farò un'altra volta a ricominciare... mi serve solo del tempo per
rimettere a posto i nervi e poi potrò continuare”. L'elfo annuì e attese.
Salamdar trasse un bel respiro, fece un altro sorso di cordiale e ricominciò.
“Le donne erano tutte povere
vedove, accusate di qualche sciocchezza come non aver pagato le tasse o
rubacchiato qualcosa. Giudicate sommariamente colpevoli, le avevano messe in
cella, poi infilate in quel carro e deportate altrove. Dei bambini non si
capiva cosa ci facessero li': giocavano per la strada e ad un certo punto erano
stati prelevati da qualcuno e messi sul carro. La ragazza dai capelli scuri
aveva visto la scena e si era messa a gridare contro questi tizi prendendoli a
calci, poi era arrivato questo soldato che l'aveva manganellata e si era risvegliata
sul carro insieme a tutti gli altri. Il suo nome era Espasia ed era energica e
testarda con una bocca ciarliera impossibile da farle chiudere. Le altre erano
tutte donne comuni, un po' piegate dall'età e con le carni rese callose dalle
fatiche.
Dopo aver raccolto la loro
storia, passammo ad interrogare il bandito. Fu una cosa estremamente semplice
perché era già terrorizzato di suo.
Ci disse che era al servizio di
Tardinius ed io esultai intimamente, disse che il carro era per lui, anche se
nessuno doveva saperlo. Per questo tendevano delle imboscate e uccidevano anche
le guardie. L'abominio, così chiamavano quel mostro, serviva a loro per fare un
lavoro pulito ed essere certi di non lasciare nessuno vivo, glielo aveva dato
Tardinius a quanto pare. Chissà dove se l'era procurato? Ormai la pista era
diventata più che una pista, era un vero e proprio caso.
Avrei potuto anche terminare lì
la missione e tornare a casa per fare rapporto, avevo persino abbastanza prove
e testimoni da far avviare un'inchiesta al generale e se fossi stato un
ispettore in servizio l'avrei fatto. Ma ero una spia. Non ero lì per
raccogliere prove ma per scoprire tutto il possibile con qualsiasi mezzo, di
modo che eventuali ispettori avrebbero già saputo che prove cercare una volta
inviati. Tuttavia non volevo sprecare quello che avevo già trovato, allora mi
misi a riflettere sul da farsi.
–Dunque– dissi rivolto al soldato
–ora tu te ne vai di qui e ti porti appresso queste donne...–
–NO!– sbottò Espasia. La guardai
sbigottito e spiazzato.
–Ragazza non è il momento...–
–Non possiamo andarcene!!– disse
lei –Ma non lo capisci che noi non siamo le prime? E non saremo nemmeno le
ultime! Dobbiamo andare in fondo a questa cosa, adesso!–
–Ma non dire sciocchezze!–
rispose il mitiraniano –noi qua dobbiamo salvarci la pelle e portare voi in
salvo e questo è già un bel guaio senza che voialtre ci facciate problemi...–
–Senti, galletto, se vuoi fare
l'eroe mi sta bene ma allora fallo fino in fondo e stammi a sentire, perché qua
i guai ce li abbiamo tutti– gli rispose Espasia, al che il mitiraniano si alzò
paonazzo di rabbia e fece per darle un ceffone, ma lei fu più veloce e gli
diede un pugno sul braccio fasciato, facendolo cadere a terra, di nuovo
paonazzo, ma dal dolore.
–Ti arrabbi anche?– gli disse –hai
idea di come ci sentiamo noi da giorni? Io sono inviperita da questa gente e
voglio fargliela pagare. Ah! Ma quante me ne hanno fatte! Fosse l'ultima cosa
che faccio ma non me ne torno a casa con la coda tra le gambe!–
Ero completamente stordito, le
altre donne mormoravano sommessamente fra di loro, chi approvando e chi con
angoscia. Una di loro si alzò e disse –Espasia cara, io sono d'accordo con te,
ma noi qui siamo tutte vecchie e non è che possiamo fare molto, inoltre ci sono
i bambini da riportare a casa, pensa a loro–.
–Ci ho già pensato Vilna e se
qualcuno qui mi fa parlare, vi dico cosa ho in mente– e mi trapassò con lo
sguardo.
–Sentiamo– dissi. Il mitiraniano
era tornato a sedersi fra il soldato e lo shoganese.
–Innanzitutto qualcuno di voi– e
indicò noi quattro –si porta appresso le donne con i bambini e torna indietro
col carro. Gli altri vengono con me da Tardinius–.
–E come?–
–Quel fellone ha detto che
Tardinius non ha un esercito ma solo cinque uomini fissi che gli gestiscono gli
abomini, mentre altri non sono direttamente ai suoi ordini e vanno avanti e
indietro. Di certo non possiamo fare un assalto ma possiamo infiltrarci. Gli
altri quattro rimasti conoscevano solo il loro compagno con l'abominio.
Quest'altro– indicò il bandito legato– e
quello che avete ucciso, non li conoscevano. Potete fingere che l'abominio sia
sfuggito al controllo e abbia ucciso tutti eccetto me, loro mi mettono in cella
con gli altri, io metto i prigionieri in guardia, voi trovate il modo di aprici
al momento giusto e mettiamo su una rivolta. L'importante è impedire agli
uomini di guardia di usare gli abomini– e fece un sorrisetto malizioso”.
“Una donna ardita” commentò
l'elfo, impressionato.
“Io avrei detto anche avventata e
ingenua” sorrise Salamdar “ma aveva le sue ragioni” ed abbassò lo sguardo,
sospirando.
“Rimasi molto colpito da quel
piano messo su in dieci minuti, un po' per l'ingenuità che dimostrava, visto
che riponeva una grandissima fiducia in noi, forse troppa, ma soprattutto
perché la ragazza aveva attribuito a se stessa il ruolo più pericoloso. È così
che si fa. I piani assurdi non si propongono se non vi si prende parte.
Furono insieme questo, il sonno,
la mancanza di idee migliori e una certa propensione a voler assecondare quella
donna, a farmi dire: –forse si può fare–.
Il mitiraniano protestò, lo
shoganese rimase silenzioso come sempre, seduto sui talloni, a meditare con una
strana espressione sul viso mentre accarezzava l'impugnatura della sua katana.
Il soldato di Ofrald era un po' incerto.
Viste le reazioni degli astanti,
commentai –però vanno discussi i dettagli–.
Per farla breve, avevo capito che
non potevo portarmi dietro ne' il mitiraniano ne' il soldato. Dissi loro di
scortare le donne al sicuro ma non ad Ofrald, lì non era il caso mettessero più
piede. Presi in disparte il mitiraniano e gli spiegai la vera natura della mia
missione, gli misi in mano un paio di monete d'oro e gli chiesi di portare un
dispaccio al generale da parte mia, rassicurandolo sul fatto che fosse generoso
nelle ricompense, altrimenti non avrei mai lavorato per lui. Fu ben lieto di
avere un motivo per tornarsene in patria e io gli scrissi un bel rapporto per
il generale in cui gli dicevo che il messaggero era anche un testimone e lo
raccomandavo di trattarlo bene.
Il soldato disse che avrebbe
portato le donne giù a sud, verso le due contee, dove c'era il suo villaggio
natìo.
Lo shoganese, disse, ci avrebbe
seguito gratuitamente perché aveva capito che c'era il suo karma ad attenderlo
alla fine di questo viaggio e che era il momento di affrontarlo. Non mi volle
spiegare di che si trattava e alle mie curiosità rispose semplicemente –posso
riscattarmi– con un vago sorriso. Non capii ma mi convinse: queste sono quelle
cose che accadono quando si finisce nei mondi spirituali, dove la vita si
scuote dal suo abituale torpore quotidiano e all'improvviso ti senti meno
anonimo, meno insensato, non so se mi spiego.
Espasia era giubilante. Mi diede
persino un bacio schioccante su una guancia che attirò la disapprovazione di un
paio di donne e del mitiraniano. Divertito, glielo feci notare e lei mi
sussurrò –sono abituata–.
Ci riposammo per il resto della
notte, il mattino dopo facemmo i preparativi e ci salutammo. Il brigante se lo
sarebbero portato dietro loro, noi ci travestimmo e prendemmo la strada per
quella che ormai mi era chiaro fosse la torre di Tardinius.
Ci arrivammo a metà pomeriggio.
Dietro una collinetta brulla un sentierino si diramava dalla strada principale
e ci avrebbe portato rapidamente al maniero. Decidemmo di aspettare l'imbrunire
e intanto salimmo sulla collinetta per farci il quadro della situazione.
La torre non era un gran che, ma
io sono abituato ai torrioni antichi e maestosi di Ranespel, dove risiedono
intere congreghe di maghi. Questa era accettabile nel suo complesso, un solido
e largo edificio circolare strutturato su tre piani. Tutto intorno alla
circonferenza di base individuammo le stalle per gli abomini. Un po' discosto
c'era un capannone con gli uomini di guardia, quattro in tutto.
Eravamo numericamente inferiori,
ma col vantaggio della sorpresa e delle mie armi magiche, perciò mi sentivo
sicuro. Tardinius avrebbe avuto un'infinità di protezioni magiche sulla sua
torre che si aspettasse un assalto oppure no, ma dubito che si sarebbe preoccupato
di proteggere anche il capannone, anzi: quando ti circondi di ladri e
tagliagole prezzolati è meglio non immunizzarli alle tue stesse armi.
Sentivo tutt'intorno la presenza
degli spiriti e questo era preoccupante visto che il sole era ancora alto.
Significava che Tardinius si era messo massicciamente all'opera e con i suoi
esperimenti stava inquinando gli equilibri delle terre circostanti.
Mi rivolsi ad Espasia –Sei ancora
sicura di voler venire con noi? In fondo io e Tokuga possiamo lo stesso infiltrarci
anche senza di te–.
–No, io voglio entrare in quelle
celle– rispose lei. La guardai a lungo.
–Tu non me la racconti giusta–
dissi.
–E perché, tu? Tutto questo va
ben oltre la ricerca di acquirenti per armi magiche, non mi freghi. Io credo
che ognuno qui abbia motivi suoi che non dice agli altri. Finché ci portano
nella stessa direzione a me va bene, poi si vedrà– scrollò le spalle e si
asciugò una lagrima e io provai l'impulso di abbracciarla ma non lo feci perché
sentii che avrei commesso un errore.
Quando il cielo si fece rossastro
e poi sempre più scuro, scendemmo sul sentiero, legammo i polsi di Espasia e
partimmo.
Arrivammo fino al capannone e
dovemmo persino bussare. Stavano cenando e questo mi fece ricordare che avevo
fame anch'io.
–Cosa stracazzo è successo qui?–
domandò quello che ci aprì quando vide noi due con la prigioniera.
–Cosa è successo?– gridai
appresso –è successo che quella bestia che ci avete dato ha combinato un casino
giù sulla strada! Ecco che è successo!–
Sentite le grida, gli altri due
si alzarono dal tavolo per venire a vedere, il quarto rimase con la testa
appoggiata sul tavolo e un bicchiere di rum ancora stretto nella mano.
–Dov'è Restor?– chiese uno di
loro.
–La bestia gli ha vomitato
addosso durante l'agguato, è andato. Poi si è liberata e ha fatto un macello.
Le abbiamo dato fuoco, ma ormai si era mangiata guardie, cavalli e prigioniere,
tranne questa– e indicai Espasia con un cenno.
Uno di loro imprecò –quel
succhiauccelli su nella torre darà di matto, vedrai. Adesso porta qui la
puttanella che eravamo un po' a corto ultimamente–.
Espasia fece un tentativo di
scappare, ma rimase zitta. Io spero fosse per recitare la parte.
–No, non ci siamo capiti– dissi –ci
rimane solo questa di tutta la merce, noi adesso la consegniamo, ci prendiamo i
nostri soldi e ce ne andiamo–.
–Ma tanto prima di domattina il
capo non scende perciò non avrete niente, così imparate a fare lavori di merda
e camminare col culo a terra. Dite la verità ci avete messo tutto sto tempo per
spassarvela con quella– ghignò insieme agli altri –adesso però fate i bravi e
portatela dentro, il capo ce ne lascia sempre qualcuna–.
Sfoderai la daga e la puntai
velocemente sotto la gola barbuta di quello che mi parlava dall'ingresso.
–No, allora allora non ci siamo
davvero capiti. Non me ne frega di quello che volete o degli ossi che vi da' il
vostro padroncino, questa è l'ultima e va al capo così com'è. Non voglio
rischiare di perdere i miei soldi– gli altri due avevano sfoderato le spade, ma
la porticina era troppo piccola e dovevano restare indietro.
–Dannazione e va bene! Ora
toglimi sta merda dalla gola che se me le fai girare, i trastulli stanotte
saranno tre, ti piacerebbe, vero?!– si allontanò per prendere una grossa chiave
incisa con degli incantesimi.
I due scagnozzi finirono la cena
mentre quello che era evidentemente il capo ci portò fino all'ingresso della
torre. Infilò la chiave in una grossa toppa decorata con un cerchio di
protezione, la girò e aprì il portone.
All'interno del pianterreno della
torre era piuttosto buio e non si vedeva nulla, c'era una grossa gabbia di
legno all'interno della quale fu spinta Espasia. Una scala a chiocciola di
pietra saliva fino al secondo piano, dal quale proveniva una strana
luminescenza.
Ci fece uscire per primi dalla porta
della torre e stavo pensando alla prossima mossa, quando fui colpito alla
testa.
Mi accasciai al suolo senza
svenire ma mi presero le vertigini e mi ci volle un minuto per rialzarmi. Lo
shoganiano aveva reagito con estrema rapidità: sfoderando la spada aveva
colpito un aggressore allo stomaco con l'elsa e poi con un unico fluido
movimento l'aveva decapitato. Intanto aveva sfoderato un'altra piccola spada e
si era messo in guardia accanto a me per non far avvicinare nessuno.
Ora ero in piedi accanto a lui,
furibondo e sanguinante. I nostri nemici erano tre, evidentemente avevano
mangiato la foglia. Non temevo quella schermaglia ma temevo che potesse
attirare l'attenzione di Tardinius. Lui non sarebbe stato gestibile.
Il capo, che avevamo ributtato
dentro la torre, spiccò un salto addosso a Tokuga che non lo vide subito a
causa del buio e rotolarono a terra insieme, intanto uno dei due mi venne
contro ma quel bicchiere di rum che gli avevamo visto in mano mentre era sul
tavolo non doveva essere una messinscena perché
lo scansai facilmente. Cadde riverso a terra ma mi afferrò per il bavero
facendomi inginocchiare. Un sonoro calcio mi arrivò sulla schiena dal terzo,
ancora sobrio, poi si allontanò. Uccisi l'ubriaco e vidi che Tokuga aveva
sopraffatto il suo avversario ma aveva un braccio sanguinante.
– È andato a prendere un
abominio!– gli dissi a denti stretti e mi maledissi per la mia stupidità. Ad un
tratto sentii un brivido gelido lungo la schiena. Guardando nell'oscurità vidi
una serie di occhi scintillanti.
–Ha evocato delle ombre!– dissi a
Tokuga che sembrava non capirmi –Tardinius, il mago! Deve averci sentito e sta
evocando delle ombre, scappa immediatamente, non devono prenderti. Domattina
saranno sparite ma per allora è inutile combattere.–
Tokuga sgranò gli occhi –tornerò–
mi disse e poi corse via.
Io intanto ero entrato nella
torre, e avevo lanciato un incantesimo per tenere lontane le ombre. Avevo già
impugnato la bacchetta, in attesa.
Comparve l'ultimo brigante con
l'abominio incatenato. Volli farlo avvicinare il più possibile per due ragioni:
non sbagliare mira e capire se l'abominio sarebbe stato fermato dal mio
incantesimo.
Non accadde e mentalmente annotai
la cosa. L'abominio era ormai vicinissimo e il brigante vi si nascondeva
dietro. Perfetto.
Puntai la bacchetta e feci
partire un lampo. Questo cadde sulla testa dell'abominio, lo attraversò e colpì
anche il brigante facendoli stramazzare a terra l'uno sull'altro.
Dopodiché svenni”.
“E' una storia terribile” disse
l'elfo “è stato un incantesimo di Tardinius a stordirti, vero? Sono contento di
vedere che ora siete qui sano e salvo, ma non riesco ad immaginare cosa possa
essere successo”.
“Già” rispose Salamdar “mandare
via Tokuga è stato un bene ma la salvezza è arrivata da un'altra parte, ma
andiamo con ordine”.
“Ripresi conoscenza sul tavolo di
lavoro di Tardinius. Lui era seduto accanto a me, con la fronte rugosa dalla
preoccupazione e i lunghi capelli grigi scarmigliati che gli scendevano sul
talamo. Aveva in mano il suo bastone.
–Chi ti manda?– chiese.
–Nessuno– risposi io.
Rimase in silenzio per un po',
chiuse gli occhi e lo sentii insinuarsi nella mia testa. Lo scacciai
immediatamente.
–Sei addestrato– disse –interessante–
e fece una cosa che non mi sarei aspettato: si mise a ridere di gusto, tutto
eccitato e con una luce negli occhi.
–Non sembri un mago– continuò –ma
hai dei giocattoli interessanti– e prese in mano la bacchetta che aveva
appoggiato su un tavolino lì accanto, senza usare i guanti.
–Ferro azzurro del Fencedhor e
sembri un mezzo sadiano... vieni dal primo continente, non sei un mago ma sei
ben attrezzato. Ti manda Muthan il rosso? Quell'elfo infingardo vuole mettersi
in mezzo e rubarmi il posto, ma non è ancora il suo momento”– disse e allora mi
accorsi delle forti occhiaie nere che invecchiavano il viso di quell'uomo.
–Senti– dissi cautamente, conoscevo
di fama Muthan Talas –se avessi ragione e mi avesse mandato Muthan potresti
anche immaginare che non gli sono certo affezionato. Perché non ne discutiamo
in una posizione meno scomoda? Potrei anche esserti utile– azzardai.
Tardinius rise di gusto per una
seconda volta.
–Si, potresti– rispose – e lo
sarai. Ma dopo. Voglio capire un'altra cosa prima. Quanto ne sai di magia? –.
Mi serviva tempo quindi decisi di assecondarlo.
–Abbastanza, avevo i soldi per
studiare ma non per affiliarmi ad una Torre e fare il percorso iniziatico. Ma
ero abbastanza bravo e mi piaceva, per questo sono rimasto nel giro–.
Tardinius sembrò contento della
mia risposta –bene, benissimo!!– gli venne persino da applaudire –allora forse
puoi capire! Ma procediamo con ordine... ora voglio sapere un po' di cose su
Muthan, se è davvero lui che ti manda– e prese un tizzone dal camino”.
“Mi dispiace” disse l'elfo a
bassa voce, posandogli una mano sulla spalla.
“Anche a me” disse Salamdar.
Fece un lungo sorso di cordiale e
poi riprese a raccontare.
“Non so quanto tempo durò, forse
anche più di un giorno. Non parlavo facilmente e perciò si dovette accanire.
Non si prese neanche la briga di interrogarmi minuziosamente, sembrava più
interessato a sezionarmi la mente che il corpo. Molte delle torture a cui mi
sottoponeva avevano poco di corporale. Mi iniettò qualche sostanza nelle vene e
persi il senno. Vidi molte cose in quello stato di follia, tanto più che
eravamo al centro di un vortice magico per cui gli incubi erano più che
semplici sogni, ma vere e proprie entità che mi succhiavano via la vita.
La cosa peggiore di tutto ciò è
che non capivo cosa stesse facendo e perché. È tremendo essere torturati ma è
peggio quando non c'è un motivo. Non voleva informazioni, non voleva niente.
Era come se volesse curiosarmi dentro.
–Va bene, va bene– disse verso la
fine, sembrava un po' insoddisfatto.
–Sono molto indietro col lavoro a
quanto pare, tu sei una mente più complessa delle villiche o dei galeotti su
cui ho messo mano recentemente. Sei più, come dire... intero, si. Piegarti non
sarà facile–
–Di cosa parli?– sussurrai.
–Oh, siamo ancora loquaci eh?–
sorrise –parlo delle mie ricerche!–
Mi slegò e mi mise su una sedia
con delle ruote.
–Vieni, ti faccio vedere– e
scendemmo al piano di sotto, il secondo.
Era una stanza piuttosto buia,
senza finestre, ma la luminescenza veniva da questi globi luminosi posti sopra
delle ampolle enormi e piene di liquido.
– È qui che creo gli abomini,
sai? È un'altra mia ricerca. Ora ti faccio vedere–.
Toccò con la punta del bastone
uno dei globi luminescenti che cominciò a brillare con più forza, insieme a
quelli delle altre ampolle, collegati fra loro da fili di rame e altri metalli.
Dentro ogni ampolla c'era un essere umano o almeno così sembrava. Uomini o
donne, non li si riconosceva più. Le ossa della cassa toracica sembravano
essersi fuse, simili ad un barilotto, la pelle non c'era più e la carne viva
era esposta, ma in alcuni il procedimento sembrava più avanzato e la carne era
diventata già più spessa e dura come cuoio. In tutto c'erano sette ampolle, ma
la settima era nera.
–Ti piace? Eheheh, non so se puoi
apprezzare l'arte, ma ho trovato il modo di trasformare queste inutili bestie in
ottime macchine da guerra. Guarda: le ossa si fondono e diventano un'armatura
interna mantenendo le articolazioni solo nei punti strategici, la carne diventa
una specie di spessa giacca di cuoio, resistente ma morbida, attutisce i colpi
e non si strappa. I muscoli devono gonfiarsi molto per sostenere il peso e
questo li rende lenti. Inoltre non possono masticare, perciò vomitano addosso
alle prede e poi le succhiano già digerite, come fanno i ragni– sembrava sempre
più eccitato mentre parlava, anche se manteneva un falso contegno mentre mi
indicava i punti dove guardare per apprezzare meglio –il problema più grosso è
che gli organi interni non riescono a mantenerlo in vita a lungo, vanno in
cancrena e producono una puzza tremenda. Eeeehhh, devo ancora perfezionarli–
disse tirando un sospiro– ma questa è una ricerca collaterale, delle armi che
non siano soggette a controincantesimi come le ombre che hai sapientemente
allontanato, le costruisco con gli scarti della mia ricerca principale, ovvero–
e qui mi si avvicinò a pochi centimetri dal viso per guardarmi negli occhi –come
annullare la Volontà Umana– e sorrise allegramente.
Feci una smorfia di disgusto e
lui la vide. Se ne compiacque.
–Perché?– domandai con un
sussurro. Speravo di guadagnare altro tempo per rimettermi in sesto, non mi
aveva debilitato particolarmente nel fisico ma avevo difficoltà a pensare, a
sentire il mio stesso corpo e a muovermi.
–Perché?– mi fece eco lui –e me
lo chiedi anche?– rise –ma perché è la fonte di tutte le disgrazie, ecco
perché! Guardati un po' intorno: siamo tutti soli, divisi dalle nostre volontà
sappiamo soltanto ucciderci a vicenda nella sofferenza. L'aveva già capito
l'Imperatore Nero, Tah Klifther, e aveva riunificato tutti i regni del primo
continente sotto il suo pugno di ferro, solo che si è accorto che i suoi metodi
erano limitati poiché coalizzare i popoli contro nemici esterni o ribelli
interni aggirava il problema ma non lo sradicava. Fece anche altri tentativi
più diretti di creare dipendenze nei sudditi per poi gestire le risorse ma non
bastava. Capì che la sua opera non era sufficiente allora si lasciò uccidere
dai ribelli, rinunciò alla sua vita umana ed alla sua stessa Volontà per
divenire un'ispirazione, una filosofia. In altre parole, un Dio!– adesso il suo
sguardo era totalmente invasato, ma io mi stavo riprendendo.
–Vuoi conquistare il mondo?– lo
schernii.
Lui si mise a ridere –sei
intelligente, mi piaci. Non voglio conquistare il mondo, non voglio coltivare
la mia personale volontà, no... sarebbe una contraddizione irrisolvibile e
deleteria. Io sono soltanto un umile servitore–.
A quel punto ebbi un moto di
paura che mi afferrò sin nelle viscere –di chi?–.
Lui mi guardò con l'aria di un
bambino sorpreso e compiaciuto.
–Hai presente Rolcan, il Signore
Oscuro, l'araldo del Dio Senza Nome? Lui era soltanto un'Ombra, era l'Ombra
oscura di un passato lontano in cui le cose buone vennero corrotte. Egli fu
ucciso all'inizio di questa era, ma certe cose non scompaiono così, no. Non se
ne vanno mai. E ritornano. Ritornano dall'aldilà, ti perseguitano e non se ne
andranno mai. Esse ritornano!– prese a passeggiare nervosamente avanti e
indietro ripetendo ancora un paio di volte fra sé –ritornano sempre–.
Tornò verso di me e mi guardò a
lungo, mi scrutò negli occhi.
– È la forma che cambia, capisci?
Ed ora c'è Tah a dare nuova forma e le cose non saranno più le stesse. Una
nuova potenza sorge ad est. Cancrelioth, l'avrai sentita nominare dai bifolchi
ad Ofrald. Io ci sono stato sai? È la città dei morti. È la città di coloro che
ritornano. È il luogo in cui le cose ricominciano. Bisogna adeguarsi, sai? È il
mondo che cambia– aveva l'aria preoccupata.
–Ma ora bando alle chiacchiere
inutili, ti ho detto tutte queste cose perché avevo voglia di condividere la
mia arte con qualcuno che la capisse ed è quello che farò, anche perché stai
per diventarne parte. Non sei elettrizzato? Stai per diventare un tassello
importante delle mie ricerche! Tu puoi capirlo, lo so, ti ho visto dentro–
questa frase mi raggelò.
Mi portò davanti all'ultima delle
ampolle, quella nera, l'unica non collegata con le altre.
–Devo dirti che ho impiegato
molto tempo per portare avanti le mie ricerche ma sono sulla strada buona.
All'inizio cercavo di piegare la volontà con l'ipnosi o altri incantesimi
fascinatori ma non funzionava mai del tutto, poi sono passato ad armeggiare con
il corpo. Cervello, terminazioni nervose, saresti sorpreso di scoprire quanto
la nostra mente e la nostra anima siano incarnate nel corpo. Insomma, in ogni
caso arrivavo sempre solo a metà dell'opera. Quando le cavie riuscivano a
vivere, restavano inebetite e inerti oppure si trasformavano in bestie
rabbiose. Riuscivo ad eliminare tutte le sovrastrutture ma la volontà rimaneva
e non c'era obbedienza, non c'era unità. È per questo che ho deciso di isolare
la volontà da tutto il resto. Per comprenderne la sua più intima natura la devo
studiare nella sua forma pura– strofinò il braccio contro l'ampolla nera e vidi
che era vetro scurito, ma che non era impossibile guardarvi dentro. Strizzai
gli occhi e vidi una sagoma umana immersa in un liquido.
– È liquido amniotico, sai?–
rispose ad una mia domanda non formulata e la cosa mi parve sinistra –non ti
dico quante femmine gravide mi sono servite per procurarmene così tanto,
comunque è andata, ora lì dentro c'è un bambino. Era di una delle... una delle cavie
e l'ho fatta partorire lì dentro. Adesso il bambino sta crescendo e maturando
perfettamente e senza nessuno stimolo esterno, capisci? Sono già anni che
continua a crescere, ormai è quasi pronto per essere messo al mondo e sarà
puro. La sua mente sarà perfetta, ne' linguaggio ne' relazioni ne' emozioni ne'
null'altro l'avrà modificata ed io potrò finalmente osservare l'essenza
ineffabile della Volontà Pura, che fino ad ora mi è sempre sfuggito e farò di
lui l'uomo del futuro!–.
È suo figlio, pensai. Sta facendo
questo a suo figlio. Forse non era peggio di tante altre violenze che avevo
visto in giro per il mondo, ma ne ero più spaventato che mai. Mi chiesi il
perché mentre che lui mi riportava di sopra. Ero legato.
Ad un tratto capii o credetti di
capire: piccole o grandi violenze e soprusi quotidiani fanno parte della
normale litigiosità delle persone che purtroppo arriva spesso ad essere così
esasperata da sfociare nella tragedia.
La schiavitù era una di queste,
forse la peggiore mai incontrata. Incomincia quando un popolo ne soggioga un
altro con la forza, si eleva alle vette della follia quando si giustifica il
dominio con qualche ideale o teoria. Allora si dispone della vita altrui che
fosse una proprietà. Si fa come se l’altro
non fosse nulla più che un oggetto.
Qui era diverso. Qui il sopruso
non solo era il modo di fare di una volontà che non potendo accogliere quella
altrui, la possiede. Era proprio lo scopo. Non c'era altro. La voragine nera
che mi si apriva davanti era la possibilità di un mondo intero tutto così. Una
promessa di schiavitù perpetua. Senza padroni. Per tutti.
Capii finalmente cosa stava
succedendo ad Ofrald. Era in atto la trasformazione, da vivi a morti, o morti viventi.
I cadaveri animati, i lich, i vampiri, sono tutte creature che appartengono ai
mondi spirituali. Ma i tentacoli della non–morte raggiugono anche il nostro
mondo e si incarnano in quelle vite spente, inutili, perse, in quegli sguardi
vuoti, in quell’agire quotidiano senza un perché.
È come diceva Tardinius, è il
male che si adegua e si trasforma col mondo.
Ormai Tardinius mi aveva rimesso
sul tavolo da lavoro e mi stava legando nuovamente. Raccolsi tutte le forze che
avevo e gli mollai un destro sulla sua mascella da vecchio. Non se l'aspettava.
Imprecò, mi toccò col bastone e
mi fece male. Molto male. Ma ero legato solo in parte e questo fu fondamentale
perché quando Espasia comparve alle sue spalle e gli diede una sonora
manganellata, io potei liberarmi da solo mentre lei continuava a prenderlo a
calci senza dargli il tempo di riprendersi.
–Tu maledetto!– gridava in
lagrime –l'hai uccisa! Hai ucciso Eleise! Mostro!– e continuava a scalciare, le
diedi una mano, giusto per riconoscenza e per mostrare a Tardinius la mia
simpatia.
Il vecchio era svenuto e da quel
momento in poi l'aria attorno a lui si era fatta solida e ci respingeva. Riconobbi
l'incantesimo: non lo si poteva uccidere finché era incosciente. Provai a
togliergli il bastone ma non funzionò. Presi Espasia per un braccio, raccolsi
mantello e bacchetta e scendemmo di sotto.
–Come hai fatto?– le chiesi.
–Secondo te mi facevo imprigionare
così, senza i ferri per aprire la serratura? Mi fidavo di voi ma non così tanto–
poi scoppiò a piangere – ma Eleise non c'era, non c'era più nessuno... ELEISE
amore mio!!!– gridò. Si asciugò le lagrime –vi ho ascoltati, prima. Ora ho
capito che l'ha uccisa o meglio, l'ha trasformata in uno di quei cosi...– e
fece un cenno verso una delle ampolle – ho sentito tutto, sai? Ero libera già
da un po'. C'è Tokuga qui fuori ma non riesce ad aprire il portone e col
braccio ferito non può arrampicarsi, allora sono salita ed ho ascoltato
tutto... lui ha fatto rapire la mia amata, capisci? È per questo che mi sono
fatta arrestare anch'io. Non sapevo se l'avrei liberata ma saremmo state
insieme. Ma ora è finita. Non mi resta più niente–.
Ero troppo intorpidito per
mettermi a discutere, le dissi soltanto – non farti contagiare, non puoi sapere
se è davvero finita qui in mezzo. Ora andiamo via di qui, forza –.
–No– rispose lei – dobbiamo
andare fino in fondo a questa storia. Distruggiamo tutto mettiamo fine a...
alle loro sofferenze!–.
Aveva ragione. Guardai le ampolle
e mi domandai come distruggerle, poi scrollai le spalle ed optai per la via più
semplice. Impugnai la bacchetta e feci partire un lampo verso il filo di rame
che collegava le sei ampolle. Scoppiarono tutte insieme in un boato e il
liquido si riversò a terra, colando al piano di sotto. Restava solo l'ultima
ampolla, mi avvicinai quando sentii il ruggito di Tardinius provenire dalle
scale –FOLLI! Cosa avete fatto?!–.
Espasia si infilò il manto magico
e disparve in un angolo buio.
Tardinius discese furente le
scale, col viso imbrattato di sangue, vide la scena e rimase attonito. Io
cercai di muovermi verso l'ultima ampolla ma fui lento perché lui agitò il
bastone verso di me gridando –no, la mia vera cavia no!– ed un pugno d'aria mi
colpì il petto scaraventandomi dall'altra parte della stanza. La bacchetta mi
volò di mano.
Tardinius si diresse verso di me
e mi lanciò un altro incantesimo, io cercai di fermarlo ma non ci riuscii e mi
sollevò a mezzaria, sbattendomi verso un altro muro. Sembrava al tempo stesso
arrabbiato e spaventato, non ragionava più. Se mai avesse ragionato.
–Vecchio mostro, è finita– disse
Espasia, accanto all'ampolla nera, con in mano la bacchetta avvolta in un lembo
di mantello.
Tardinius si girò di scatto per
lanciare un incantesimo ma io mi buttai sulle sue gambe e lo feci cadere a
terra. L'ampolla nera si ruppe e il bambino al suo interno cadde a terra, lo
vidi dimenarsi, tossire e mugolare mentre Tardinius gli strisciava accanto –figlio
mio!– gridò e io lo guardai stralunato. Espasia mi prese per un braccio e ci
dirigemmo al piano di sotto. Non riuscivo a distogliere lo sguardo dal bambino
per vedere cosa sarebbe successo. Aveva cinque o sei anni, mi parve, aprì gli
occhi nella direzione del padre ma non lo vide, lanciò uno strillo acuto e si
afflosciò morto. Tardinius piangeva.
Al piano di sotto riuscii a
forzare l'incantesimo della porta che era studiato per difendere dal di fuori,
non per trattenere dentro, Tokuga esultò, aveva con sè una torcia ed olio per
lanterne. Lui ed Espasia appiccarono un incendio. Io mi ero trascinato fuori e
trovai due cavalli legati lì vicino. In seguito seppi da Tokuga che avevamo
passato tre giorni nella torre con Tardinius tutto preso da me, che mi avevano
sentito gridare. Lui era riuscito a passare del cibo ad Espasia e stavano
pensando ad un piano per liberarmi perché lei non poteva accedere al terzo
piano, quando era stato sorpreso da due cavalieri neri venuti dall'est ed era
scappato per farsi inseguire. Alla fine era riuscito ad ucciderli e a
prendergli i cavalli. Quando Tardinius mi ha portato di sotto aveva lasciato
aperta la botola ed Espasia era riuscita ad intrufolarsi.
La torre era ormai in fiamme e
stavamo incendiando anche le stalle con gli abomini. Espasia volle assicurarsi
che morissero rapidamente, senza dover aspettare che i loro organi interni
collassassero. Intanto sentivamo le grida disperate di Tardinius, ma non erano
di dolore. Io sono convinto che stesse piangendo suo figlio, per quanto
sembrasse strano, o per i suoi esperimenti. Dubito che l'incendio l'abbia
ucciso, era un mago troppo potente, ma non l'ho mai saputo perché abbiamo
preferito scapparcene appena possibile.
Cavalcammo verso sud, io ed
Espasia sullo stesso cavallo, Tokuga sull'altro. Voleva portarci nello Shogan,
alla corte del suo signore, dalla quale era stato bandito per codardia anni
addietro. Lui non avrebbe passato il confine senza il permesso del suo signore
ma voleva che noi gli raccontassimo tutta la storia. Alla fine successe una
cosa che secondo me era folle: il signore di Tokuga gli concesse di rientrare
in patria per morire con onore. A Tokuga fu concesso il suicidio rituale dei
guerrieri del suo paese che per disonore gli era stato negato in passato. Fu
incredibile: non vidi mai una persona tanto contenta di morire e pensai che il
mondo è proprio strano, anche se in qualche strano modo mi parve di capire.
Piansi alla sua morte solenne ed anche Espasia.
Io e lei facemmo ancora un tratto
di strada insieme. La accompagnai nelle due contee dove ritrovammo le sue
compagne di sventura nel villaggio del soldato. Le lasciai il manto magico e la
bacchetta e ripresi la strada verso casa”.
“È una storia incredibile” disse
l'elfo “e preoccupante”.
“Si, soprattutto preoccupante”
rispose Salamdar.
“Se c'è un nuovo Signore Oscuro
nel Nuovo Continente, in questa Cancrelioth, la cosa è grave. Bisogna avvertire
il mio signore, Tinwe Linto. Bisogna avvertire tutti”.
“È per questo che sono venuto
qui” disse Salamdar.
“Ma il tuo generale ti ha
mandato? Come ha reagito?”
“Non ha reagito: come ti ho detto
non sa ancora niente. Appena sbarcato sono venuto direttamente qui, non ce la
facevo a tornare a Ranespel. Non ce la facevo a raccontare o fare rapporto.
Avevo sentito dire che qui ti mettono a tuo agio e così è stato” Salamdar
sorrise “ho potuto finalmente togliermi il peso, anche se c'è un’altra cosa
ancora che mi rode dentro” aggiunse a bassa voce.
“Di cosa si tratta?” chiese
l'elfo distrattamente, ancora intontito dalle cose che aveva saputo.
“Niente, non preoccupatevi, ve ne
parlerò domattina. Ormai si è fatto tardi e vorrei riposarmi. Forse riuscirò
finalmente a riposarmi” sorrise Salamdar.
“Va bene ma tenete questo” e gli
diede la bottiglia di cordiale alle mele. Salamdar accettò e salì per le sue
stanze.
L'elfo era frenetico, pensava e
ripensava a tutta la storia, angosciato e decise che per fare ordine nei suoi
pensieri avrebbe pulito il bancone. Funzionò e dopo un'oretta riuscì a
ragionare nuovamente con calma. Decise che avrebbe parlato l'indomani con i
suoi compagni e avrebbero richiesto udienza al suo signore. Poi avrebbe chiesto
a Salamdar di raccontare...
“Dannazione!” imprecò l'elfo,
gettò via il bicchiere e si precipitò all'alloggio di Salamdar. Bussò e ribussò
ma non rispose, allora scese a prendere le chiavi di riserva e quando risalì
aprì la porta e...
Salamdar era morto.
L'aveva detto che non ce l’avrebbe
fatta a riprendere il racconto, e che c'era ancora qualcosa che lo tormentava
interiormente. Che stupido era stato a farlo andare via. Ora Salamdar era lì
che penzolava fuori della finestra, appeso ad una corda.
“Si è gettato nella voragine”
pensò l'elfo. “Ha concluso la sua vita, ma perché?” non gli sembrava fosse per
le torture subite e poi l'aveva detto che c'era qualcos'altro.
Tirò su il corpo di Salamdar e lo
depose sul letto.
Vide un libricino aperto sulla
scrivania, accanto alla bottiglia di cordiale ancora chiusa, si avvicinò e lo
lesse.
C'era stato scritto già da molto
tempo tutto quello che aveva appena raccontato all'elfo eccetto che per il
finale, le cui ultime pagine erano state appena vergate. Di seguito c'era un
messaggio per lui.
“Grazie per l'ascolto, per la
gentilezza. Ha significato molto per me.
Ho fatto quello che ho potuto,
come ho potuto. Ho passato tutta una vita da solo, cercando di cavarmela come
potevo, mentendo a chiunque a volte anche solo per il gusto di farlo. Ho
scoperto come usare al meglio queste capacità, per fare anche qualcosa di
buono, ma non me ne è mai venuto nulla. Non sto a giustificarmi perché non
serve. Ho sempre tenuto duro, questo è il punto. Ora sono stanco.
Vi lascio la mia storia perché
sento che è importante farla conoscere. Forse è l'unico vero gesto
disinteressato che io sia mai stato capace di fare. Speravo in qualcosa di più
che la riconoscenza da parte di Espasia, ma lei era di un'altra e non ci ho
potuto fare niente.
Ma non è per questo che lo
faccio.
Prima non l'ho detto ma lo faccio
adesso perché da allora, da quando ho visto morire il figlio di Tardinius, non
riesco a perdonarmi una cosa. Di essere
rimasto deluso.
Da allora non faccio che
chiedermi se con un po' di tempo in più, l'esperimento sarebbe potuto riuscire.
È un tarlo. È un pensiero che non va più via. Che ritorna, ritorna sempre.
Non
posso permetterlo.
Consideratelo un sacrificio.
Addio”.
Nessun commento:
Posta un commento