Racconti Dimenticati
Il Cavaliere del Ponte
L’aria
era frizzantina come sempre nelle prime ore del mattino, il lento scalpiccio
degli zoccoli del cavallo sulle pietre sconnesse del sentiero produceva un
ritmo quasi soporifero.
Un
uomo in tenuta da viaggio cavalcava lentamente godendosi la vista del paesaggio
montano illuminato dai primi raggi del sole.
Il
sentiero curvava a ridosso di una rupe e il cavaliere spostò la sua cavalcatura
sul lato opposto della strada per evitare eventuali massi frananti; il cavallo
obbedì docilmente e superò il passo con rapidità ma si vide costretto a
fermarsi quando le briglie del morso strinsero e tirarono indietro.
Lungo
la strada, un vecchio vestito con una larga tunica bianca stretta in vita da
una corda e dei sandali rotti ai piedi riposava appoggiato ad una roccia.
Il
cavaliere smontò e si diresse verso di lui.
-
Serve aiuto, pellegrino?- chiese.
Il
vecchio sembrò destarsi improvvisamente ed alzò di scatto il viso nella
direzione da cui era provenuta la voce.
-
Oh, mio signore, se fosse possibile si. – rispose con gratitudine l’anziano -
Sono un vecchio sacerdote errante di Nukulmé la tempestosa e mi stavo recando
nella città di Rhone per visitare l’ultima cattedrale del Dio Freleret ancora
in piedi dall’ultima Guerra Nera. Il mio destino si è rivelato tuttavia
infausto, perché nel bel mezzo di questo sentiero montano i miei calzari si
sono rotti e i miei vecchi piedi non riescono a sopportare la dura pietra su
cui ci troviamo-.
- Allora
la tua fortuna ha girato nuovamente, sacerdote, perché sono originario di
quella città e vi sto tornando da un viaggio. Vieni, ti aiuterò a montare sul
mio cavallo e ti scorterò sino a destinazione- fece il cavaliere conducendo il
suo cavallo accanto al Sacerdote.
-
Ah, cavaliere, vi sarò eternamente grato! Purtroppo non ho nulla per
ricompensare la vostra gentilezza, se non condividendo con voi la saggezza dei
racconti popolari.
Vi
racconterò una vecchia storia di un antico regno che viene tramandata da noi
sacerdoti erranti sperando che vi piaccia-.
-
Certamente- rispose il cavaliere che aiutò il Sacerdote a montare sul cavallo –
intanto permettetemi di presentarmi, io sono Thair, primo esploratore
dell’Arciduca di Rhone-.
-
Lietissimo, mio signore, io sono Narima di Fronda e come dicevo sono in
pellegrinaggio per visitare l’antica cattedrale della città di Rhone-.
Tahir lo guardò e rispose -
In verità tempo fa visitai un tempio più antico di quello di Rhone in una città
abbandonata, ma visitarlo nuovamente credo sia impossibile. Comunque ora
raccontatemi la vostra storia, sacerdote, poiché sono sempre assetato di
conoscere il passato e le leggende dei nostri padri-.
-
Non capisco bene di cosa parliate, messer Thair, comunque farò quel che posso
per soddisfare la vostra curiosità.
La
storia che vi narro ebbe luogo durante il regno di Geneddyn VIII, un antico Re
del Fencedhor. Geneddyn aveva al proprio servizio numerosi cavalieri, molti dei
quali trascorrevano il tempo vagabondando per il regno alla ricerca di
avventure.
Uno
di loro, Artren figlio di Nut, conte di Shanor, un giorno si trovò a passare in
una parte del regno assai remota e poco conosciuta. In questo luogo egli vide
che tutti vivevano in povertà, la terra era sterile e paludosa, il bestiame
degli allevatori era magro e malato e le nubi rovesciavano piogge continue.
Artren
aveva un carattere ardito ed una gran forza d’animo. Suo padre era un fedele
vassallo di Re Geneddyn ad aveva combattuto valorosamente in numerose battaglie
ottenendo grandi onori e doni belli e
ricchi dal suo sire.
Il
regno era ora in pace da diversi anni e Artren scalpitava nella speranza di
mostrare il proprio valore così da rendere fiero il proprio padre ed essere
ammesso come lui nella cerchia dei Cavalieri di Freleret, elite dell’esercito
del Fencedhor.
Il
fato era stato, tuttavia, avverso ad Artren, che appena raggiunta la maggiore
età aveva abbandonato i propri maestri, si era armato e, dopo essersi
accomiatato dal padre promettendogli di renderlo fiero, era partito in cerca di
fama e gloria che sembravano non arrivare mai.
Per
questo il cavaliere che ormai aveva perso la speranza, si sentì galvanizzato
alla vista di quelle terre brulle e martoriate, poiché erano evidentemente
sotto l’effetto di qualche malvagio incantesimo.
Artren
vagò in lungo e in largo, passando di villaggio in villaggio alla ricerca di
qualcuno che sapesse dargli indicazioni riguardo la fonte di questo malessere,
ma nessuno ne sapeva nulla.
“E’
iniziato tutto un anno fa, bel cavaliere, ed il nostro Re Gwyntin non ha mosso
un dito per aiutarci. Peggio ancora, egli non fa avere sue notizie da allora e
rimane chiuso fra le mura del suo castello!”.
Questo
dicevano i borgomastri e i sacerdoti che Artren incontrava sul suo cammino. Il
cavaliere decise che era il caso di recarsi al castello di questo re per
domandargli la ragione del suo vile comportamento.
Il
castello del Re sorgeva su di un monte alto e forte, protetto da tutti i lati
da profondi burroni scoscesi ed aveva un solo sentiero tortuoso che si
avvolgeva per tutta la montagna sino a giungere a valle. Le sue torri alte e
forti svettavano trionfanti per centinaia di metri ed erano assai belle, con le
bandiere ricamate con fili d’argento ed oro che garrivano al vento.
In
prossimità della cima del monte sgorgava un ruscello che scendeva in mille
cascate le cui acque si raccoglievano a valle formando un fiume largo ed
impetuoso che tagliava di netto il sentiero.
Un
ponte alto e forte era stato eretto come unico passaggio per il sentiero ed un
cavaliere dall’armatura scintillante con un grande scudo dorato, una lancia di
robusto frassino ed un alto elmo argentato ne sorvegliava il passo in groppa da
un gigantesco cavallo da guerra di cui mai se n’era visto l’eguale in tutto il
regno.
Il
cuore di Artren balzò nel petto e di gran carriera si diresse verso questo cavaliere.
“Cavaliere,
ti chiedo di lasciarmi passare poiché ho necessità urgente di parlare con il
tuo sire Gwyntin”.
Il
cavaliere sconosciuto allora rispose “Torna a casa, ragazzo. Solo il Cavaliere
del Ponte può attraversare questo passaggio al mio fianco dopo che mi avrà
battuto in singolar tenzone e giungere alla corte di Re Gwyntin. Torna a casa,
ti dico. Molti altri cavalieri hanno provato ad attraversare e sono morti o
tornati a casa disonorati e con lo scudo rotto”.
“Mi
spiace, cavaliere, ma non posso permettere che il re di queste terre continui a
nascondersi nel suo maniero dalle alte mura, mentre il suo popolo soffre la
fame ed il freddo, ora lasciami passare o sarò costretto ad atterrarti” rispose
Artren, ma il cavaliere sconosciuto si piantò innanzi al ponte con la lancia in
resta, silenzioso, in attesa che il giovane facesse la sua mossa.
Artren
allora vide che non c’era altra scelta e si armò, si pose di fronte al
cavaliere a due tese di distanza, imbracciò la sua lancia e spronò arditamente
il proprio cavallo mentre il suo nemico faceva altrettanto.
I
due cavalieri si scontrarono a metà strada e le loro lance si incrociarono.
Artren fu colpito in pieno petto e fu catapultato via dalla groppa del suo
destriero, mentre la sua lancia si frantumava sullo scudo del suo avversario
che quasi cadde a sua volta, ma tuttavia riuscì ad assorbire il colpo ed a
rimanere in sella.
Il
cavaliere sconosciuto girò allora il cavallo e si diresse verso Artren mentre
questi era ancora a terra, confuso ed incapace di rialzarsi.
“Giovane
cavaliere devo farti le mie scuse, sei più abile di quanto dia a vedere la tua
giovane età, ma non puoi competere con la mia esperienza e le mie armi
incantate. Torna a casa e, te ne prego, avvisa sire Geneddyn delle condizioni
in cui versa questo paese, sicchè egli trovi il Cavaliere del Ponte e lo mandi
qui”.
Artren,
tuttavia, si sentiva umiliato e non poteva presentarsi a suo padre vinto e
piagnucolante come un fellone qualsiasi.
“Mai”
rispose “mi presenterò alla corte del Re con una tale onta sul mio capo. Dovrò
prima riconquistare il mio onore, altrimenti non potrei mai più guardare negli
occhi mio padre”.
Il
cavaliere sconosciuto allora alzò la visiera mostrando un bel viso dagli occhi
neri ed un triste sorriso.
“Capisco
i tuoi sentimenti, giovane cavaliere, e vedo l’ardore che brucia nei tuoi
occhi. Per questo motivo ti darò una possibilità che non ho dato a nessun’altro
cavaliere che ho incontrato sino ad ora.
Vai
a sud di qui e trova il monte Albion, dove sorge il Sacro Tempio di Freleret.
In quel tempio abita una sacerdotessa di nome Eylessime. Ella è un’elfa di
nobile stirpe proveniente dalla lontana foresta Limvalise, serve il grande Dio
Freleret e la santa Nukulmé da centinaia di anni ed ha sempre portato grandi
benedizioni su queste terre. Cerca questa sacerdotessa e convincila a
concederti la Lancia e lo Scudo del Fulmine con le quali potrai duellare con me
ad armi pari per riacquistare il tuo onore”.
Artren
si sentì subito rinvigorito nell’udire questa possibilità e senza por tempo in
mezzo, balzò in piedi e chiamò il cavallo.
“Cavaliere,
invero siete un uomo d’onore come ce ne sono pochi a questo mondo. Quando mi
avete sbarrato il passo ho pensato che foste un villano ed un aguzzino, ma ora
mi rendo conto che siete nobile e buono. Ancora non mi spiego per quale motivo
insistete a proteggere quel ponte quando il popolo di queste terre è così
sofferente, ma confido che abbiate i vostri motivi.
Ora
farò come dite e poi tornerò per recuperare il mio onore. Posso, tuttavia,
avere l’ardire di chiedervi il vostro nome?”.
“Il
mio nome” disse il cavaliere sconosciuto “è Inelioch il Nero, ed il tuo,
giovane cavaliere?”.
“Artren,
figlio di Nut, conte di Shanor”.
Artren
salì in groppa al suo destriero e girò il cavallo.
“Addio,
cavaliere, tornerò con la Lancia e lo Scudo del Fulmine e mi batterò di nuovo
con voi” disse Artren e partì al galoppo.
La
ricerca del monte Albion non fu semplice, né corta, ed Artren si ritrovò a
vagare per settimane senza avere idea di dove si trovasse.
Un
giorno Artren si ritrovò a vagare per una foresta assai buia e scura, quando si
imbatté in una compagnia che mai si sarebbe aspettato di vedere.
Un
grosso orco alto e nero, dalle spalle ampie e forti, con braccia grandi e
robuste, camminava in mezzo ad un gruppo di goblin piccoli e meschini, dalla
pelle verde e i denti aguzzi e sporchi. Portava in braccio una donna legata
mani e piedi ed imbavagliata.
Quando
l’orco e i goblin videro Artren subito fuggirono di gran carriera nel
sottobosco ed il cavaliere dopo un attimo di incertezza spronò il cavallo al
loro inseguimento.
Subito
Artren raggiunse due goblin e li passò rapidamente a fil di spada, mentre gli
altri si fermavano ed impugnavano le armi per attaccarlo.
La
loro difesa si rivelò inutile in quanto Artren li travolse con il cavallo e li
finì a colpi di spada, tuttavia un goblin particolarmente agile e scaltro lo
evitò all’ultimo e con un balzo si aggrappò al cavallo e gli salì in groppa
ponendosi dietro il cavaliere.
Artren
in quel momento indossava solo una leggera cotta di maglia e gridò di dolore
quando il pugnale avvelenato del malefico essere gli penetrò nella schiena.
Girandosi,
Artren colpì con l’elsa della spada la testa del goblin, spaccandogliela e
facendolo cadere a terra.
La
vista di Artren si appannava e il respiro gli si faceva pesante mentre il
veleno entrava in circolo nel suo corpo, così il cavaliere pensò di indirizzare
il cavallo verso l’ultimo villaggio che aveva superato e cercare aiuto lì, ma
il pensiero della fanciulla in mano all’orco lo fermò. Come avrebbe potuto
guardare negli occhi suo padre, se avesse compiuto un atto così vile e fellone?
No, se avesse dovuto morire, tanto valeva farlo combattendo nel tentativo di
salvare una donna dal suo turpe destino.
Strinse
i denti e fece schioccare le redini alla ricerca dell’orco.
Trovò
la bestia che si era fermata in un tratto di bosco particolarmente fitto, aveva
posato la donna su una roccia e si era fermato, spadone alla mano, ad aspettare
il cavaliere.
Artren
aveva notevole difficoltà a cavalcare in mezzo a quegli alberi, così si vide
costretto a smontare, perdendo in questa maniera il suo unico vantaggio nei
confronti della malefica creatura.
Artren
sfoderò la sua spada, imbracciò il proprio scudo e si diresse a passo
claudicante verso l’orco, mentre sentiva che le forze cominciavano ad
abbandonarlo.
Si
rese conto di non avere molto tempo prima che il veleno lo sopraffacesse,
quindi non indugiò e si gettò contro l’orco menando un pericoloso fendente.
L’orco
gettò un grido simile ad un ruggito e schivò il fendente di Artren
restituendogli un poderoso colpo al fianco che penetrò nella sua cotta sino a
mordergli le carni, approfittò del disorientamento di Artren e gli diede un
manrovescio che gli fece saltare l’elmo dalla testa e lo stese a terra. Stava
per finirlo, prese a due mani lo spadone, lo issò sopra la sua testa nera e lo
calò violentemente sul petto di Artren.
Il
cavaliere, fece, tuttavia, in tempo ad issare lo scudo per pararsi. Questo si
spaccò in due ma l’orco si sbilanciò ed Artren quasi d’istinto, gli infilò la
propria spada fra le costole, affondandola sino all’elsa.
L’orco
gridò di dolore, il sangue prese a scivolargli dalle fauci e dal fianco e cadde
a terra gemente, per restarvi.
Artren
allora raccolse le sue ultime forze e sfilò il proprio pugnale da caccia dalla
cintura, strisciò verso la donna e le tagliò le corde che le tenevano
prigioniere le mani, poi svenne.
Si
sentì muovere e rigirare, mentre la sua mente scivolava via via nell’oblio.
Provò ad aprire gli occhi e vide due occhi neri che lo fissavano, ma non riuscì
a distinguere altro prima di perdersi completamente-.
Il vecchio sacerdote rimase silenzioso per alcuni minuti, poiché Thair aveva svoltato un angolo del sentiero ed ora innanzi a loro si stendeva la vallata ove sorgeva la città di Rhone.
Il vecchio sacerdote rimase silenzioso per alcuni minuti, poiché Thair aveva svoltato un angolo del sentiero ed ora innanzi a loro si stendeva la vallata ove sorgeva la città di Rhone.
Le
grigie mura della città svettavano alte ed imponenti mentre il bastione
dell’Arciduca sembrava un grosso gigante accovacciato sul fianco della collina.
Mille bandiere sventolavano dalle alte torri che si ergevano fiere contro il cielo
azzurro-rossastro del volgere del crepuscolo.
-
Una bella vista, nevvero?- chiese Thair ed il vecchio sul cavallo annuì
estasiato.
-
E’ l’ultima delle grandi città dell’antico Fencedhor ancora in piedi ed abitata
ed innanzi alle sue mura, duecento anni
fa venne combattuta la battaglia finale dell’ultima Guerra Nera. In quello
spiazzo- Thair indicò un punto in cui il terreno erboso lasciava posto ad un
piccolo acquitrinio nero e malsano – l’Imperatore Nalmir II diede il colpo di
grazia al Demonio e lo uccise, mentre quella – ed ora indicò un edificio
circolare che svettava sugli altri, all’interno della città – è la vostra meta,
la Cattedrale di Freleret. Vedrete che
saremo lì prima che faccia buio, ma ora ve ne prego, proseguite nel vostro
racconto poiché ascoltarvi è un piacere e di rado ho mai incontrato un
narratore vostro pari-.
Il
vecchio sacerdote sorrise sornione e chinò il capo in ringraziamento per le
lodi di Thair, dopodiché trasse un respiro e riprese a narrare.
- Quando Artren riaprì gli occhi rimase sbalordito e confuso. Si trovava in una stanza dalle pareti e il soffitto di marmo lucido, riccamente addobbata. Il suo letto era morbido e soffice al punto giusto da essere fra i più comodi che Artren, nonostante la ricchezza del padre gliene avesse consentiti di molto gradevoli, avesse mai sperimentato. Le coperte erano in pelliccia di ermellino, assai ricche e di fattura quantomai buona. Anche i mobili della stanza erano assai belli e dall’aspetto resistente, mentre dal camino si spargeva un odore di incenso, acre e pungente, tuttavia piacevole e rinvigorente.
Atren
si alzò a sedere e vide che qualcuno gli aveva fasciato le ferite e non solo:
non sentiva più traccia del veleno nel suo corpo e le sue forze erano tornate
nuovamente, anche se pativa una notevole fame.
Passarono
alcune ore durante le quali Artren esplorò la sua stanza. Su di una sedia
giacevano le sue armi e la sua armatura era stata appoggiata in un angolo,
accanto ad una finestra che si affacciava in una valle nebbiosa.
Artren
aprì alcuni cassetti di un armadio e vi trovò dei vestiti puliti e belli che si
affrettò ad indossare e si guardò allo specchio. I suoi capelli rossi erano più
lunghi e scomposti di quanto ricordasse e il suo volto solitamente scuro ed
abbronzato aveva un aspetto livido e cereo con una barbetta incolta che gli
copriva il mento.
Stava
riflettendo che doveva aver trascorso almeno un mese fra la vita e la morte,
quando udì bussare alla sua porta e si affrettò ad aprire.
Quella
che vide innanzi a se era senz’altro la più bella dama che avesse mai
conosciuto. Era alta e ben fatta, con capelli lunghi e neri, occhi neri e pelle
candida. Il naso era delicato e le labbra carnose, le spalle delicate
anch’esse, il seno misurato ed i fianchi snelli.
La
sua voce apparve dura ma tuttavia calda ed avvolgente quando disse “Mio
Signore, speravamo vi foste svegliato e vi aspettiamo per la cena, la mia
Signora vuol parlarvi”.
“Dove
ci troviamo, di grazia, mia dolce fanciulla?” chiese Artren.
“Questo
è il Monastero di Freleret sul monte Albion, ma ora non indugiate: la mia
signora desidera vedervi”.
“Un
momento…” cercò di intervenire il cavaliere “eravate voi la dama rapita
dall’orco che ho salvato?”.
La
fanciulla arrossì lievemente e annuì, poi fermò con una mano le parole di Artren
e disse con maggiore fermezza “La mia Signora vi aspetta, venite” e lo condusse
attraverso numerosi corridoi.
La
fanciulla si fermò davanti a delle porte assai pregiate ed ornate sfarzosamente
e le aprì, svelando una grande sala capitolare tanto vasta quanto alta.
Il
pavimento era in lucido marmo ma le pareti erano spoglie e grigie, in granito.
Ampie arcate sorrette da colonne eleganti si aprivano lungo di esse e dentro
ogni arcata, si aprivano delle porte per un totale di trenta porte ed
altrettante arcate.
Sul
lato nord della sala vi era un altare di marmo bianco dietro il quale si
innalzava un’imponente statua del Dio Freleret e della sua figlia Nukulmè la
santa, l’uno che stringeva sette fulmini di bronzo in una mano levata verso il
cielo, l’altra con due fulmini in una mano e tre in un’altra che li rivolgeva
verso il basso.
Al
centro della stanza vi erano delle lunghe tavolate di legno con delle panche su
cui erano seduti numerosi monaci e monache in tunica grigia i primi e bianca le
seconde. Vi erano anche due nani ed alcuni elfi fra i monaci e tutti erano
rivolti verso l’altare.
La
fanciulla prese Artren per la mano e lo condusse verso due posti liberi situati
su un tavolo in disparte subito sotto l’altare dove si sedettero.
I
monaci in coro cominciarono a cantare.
Artren
chiuse gli occhi e cantò seguendo le voci dei monaci e quando la litania si
spense li riaprì e saltò dalla sorpresa. Davanti a lui ora sedeva una donna
dalla bellezza eterea. Era indubbiamente un’elfa e indossava una tunica bianca
con una fascia rossa riccamente bordata con fili d’oro e d’argento. I capelli
di lei erano biondi e lunghi, aveva grandi occhi luminosi contornati da lievi
rughe che le davano un aspetto assai saggio e venerando, il suo collo era lungo
e sottile e da esso pendeva una catena d’oro con un medaglione in cui erano
incisi i sette fulmini di Freleret.
“Salve,
giovane cavaliere” disse sorridendo ed Artren si alzò e si inchinò
profondamente raccogliendo la mano della Sacerdotessa e baciandola
rispettosamente.
L’elfa
che era nobile e cortese, sorrise con benevolenza e diede la sua benedizione ad
Artren, facendolo sedere e chiedendogli il suo nome. Senza esitare Artren si
presentò.
“Sono
davvero lieta che siate capitato al posto giusto al momento giusto per salvare
la nostra fanciulla. Un’incredibile coincidenza e proprio tramite le
coincidenze fortuite, si può intravedere il volere degli dei”.
“Davvero
una coincidenza più fortuita di quanto crediate, mia Signora, poiché ero giunto
in queste contrade alla ricerca del Sacro Tempio di Freleret sul monte Albion,
per chiedere alla Sacerdotessa Eylessime che mi concedesse in dono la Lancia e
lo Scudo del Fulmine e sono disposto a servirla in qualunque maniera se me le
concederà” rispose Artren.
“Allora
è stato davvero il destino a guidarvi, mio giovane cavaliere, poiché io sono la
Sacerdotessa Eylessime, Priora di questo Monastero e Somma Sacerdotessa del
Sacro Tempio di Freleret” e Artren chinò il capo con aria consapevole, poiché
si aspettava questa risposta.
“Tuttavia
quello che mi chiedi è un dono assai prezioso, potrei sapere per quale motivo
me lo chiedi?”.
Artren
allora rispose “devo riconquistare il mio onore che appartiene al Cavaliere
Nero che mi ha sconfitto sul ponte che conduce alla dimora del Re Gwyntin che
sta ignobilmente trascurando il suo popolo e la sua terra, soggetti ad una
terribile maledizione. E’ stato lo stesso Cavaliere Nero, di nome Inelioch a
suggerirmi di venire qui a chiedervi queste armi per sconfiggerlo”.
Quando
Artren ebbe terminato, l’elfa rimase sbalordita e scambiò un rapido sguardo con
la fanciulla seduta accanto al giovane, che non si accorse della cosa ed attese
una risposta.
“Conosco
le sciagure di quella contrada, mio Giovane Cavaliere, ed ho tentato numerose
volte di spezzare il maleficio che la affligge, durante questo anno, ma
nonostante tutte le mie arti ed il mio potere, sono riuscita ad ottenere
risultati assai scarsi, che hanno rischiato di essere vanificati di recente. Ti
concederò le armi, Cavaliere, a patto che tu porti teco la fanciulla che hai
salvato e che ora è in debito di sangue con te. Essa è di umili origini,
tuttavia è stata molto bene educata ed è ormai esperta di arti magiche e
potrebbe esserti di aiuto nella tua avventura”.
Artren
fu preso alla sprovvista e voleva rifiutare per non mettere in pericolo la
fanciulla e non rischiare di essere intralciato, quando la guardò e vedendo la
sua bellezza, sentì di non volersene separare.
“Va
bene, mia signora, ma a patto che ella mi riveli il suo nome”.
La
fanciulla, rossa in viso, si alzò e rivolgendosi al cavaliere disse “il mio
nome è Cinthia, mio signore, e sarò lieta di accompagnarvi in questo viaggio”.
Artren
allora si alzò e le baciò la guancia in segno di amicizia.
“Stasera
riposa, Cavaliere, poiché già domani ti aspetterà la tua prima impresa, poiché
queste armi che chiedi sono sacre e le custodisce da innumerevoli anni un
gigante delle rocce fedele servo di Freleret, che ha giurato di proteggerle con
la vita. Egli abita in una grotta dall’altro lato di questo monte ed alla terza
ora dopo l’alba ti ci accompagnerò” soggiunse Eylessime.
La
cena fu sontuosa e quando ebbe termine, Cinthia accompagnò Artren alle sue
stanze. Quando la fanciulla stava per andarsene, il cavaliere in un impeto di
ardore le chiese: “dama, vorreste concedermi di farmi compagnia per qualche
minuto prima che cali la notte e con essa la stanchezza di questa giornata?”.
Al che la fanciulla studiò attentamente Artren mentre le sue labbra si
arricciavano in un sorriso che il cavaliere non seppe definire se divertito o
beffardo o entrambe le cose assieme, poi rispose “Vi siete battuto
valorosamente per salvarmi ed avete guadagnato il mio rispetto, tuttavia vi
chiedo di non aspettarvi altro da me. Avremo molto tempo per parlare, quando
partirete per la vostra avventura e già domani vi aspetta una prova ardua.
Riposate, è meglio”.
Artren
si vide, così, chiudere la porta in faccia e si disse “che temperamento!” poi
pensò che forse era meglio così, visto che spesso fama e gloria non coincidono
con le belle donne di umili origini e dal carattere forte.
L’indomani,
Artren fu svegliato da un monaco nano piuttosto chiassoso che, vedendolo
assonnato e sbadigliante, gli propose un bicchiere di idromele e quando Artren
rifiutò, scosse la testa, fece spallucce e se lo bevve.
Il
cavaliere in breve si vestì e si armò e scese nel cortile del monastero, dove
Eylessime e Cinthia lo aspettavano con il suo palafreno già sellato e pronto.
Il
tragitto sino alla grotta del gigante fu breve ed Artren si ritrovò a
fronteggiare un essere dalla pelle grigia come le rocce che lo circondavano,
alto sette metri, vestito di pelle d’orso con ampie spalle e braccia muscolose
grandi come tronchi.
La
testa era priva di barba e peli e gli occhi erano anch’essi grigi e la voce
risuonò profonda e cavernosa.
“Cavaliere!
Chi sei e per quale motivo osi disturbare il sonno di Kagroon, figlio di
Taargoon, della stirpe di Nocklas?!” tuonò il gigante.
“Sono
Artren figlio di Nut, e vengo a reclamare la Lancia e lo Scudo del Fulmine con
i quali riconquistare l’onore perso in duello, fatti da parte gigante o dovrò
atterrarti”.
“Vattene!
Non sei degno di indossare armi che sono state indossate da valenti cavalieri e
indomabili guerrieri prima di te! Le loro gesta ora riecheggiano nella leggenda
e il loro nome verrebbe insozzato se un cavaliere senza onore prendesse le loro
armi!”.
Ma
Artren non si lasciò intimidire dalle parole del gigante, sfoderò la spada e si
spinse al galoppo verso il gigante.
Il
cavaliere girò in cerchio in attesa che il mostro facesse la prima mossa, ma
questo era assai esperto ed attese con pazienza, tenendo un enorme spadone con
una mano ed un imponente scudo con l’altra.
Artren
vide che il proprio cavallo si stancava e dovette attaccare. Aspettò di
trovarsi dietro al gigante e partì con la spada levata, ma questo udì il cambio
di rumore degli zoccoli sulla roccia e si girò di scatto menando un poderoso
fendente che Artren dovette parare utilizzando sia la spada che lo scudo e
nonostante ciò, corse il rischio di essere disarcionato.
Quando
che si fu allontanato, Artren udì il gigante schernirlo “sciocco bambino,
tornatene a casa e abbandona la stupida illusione di potermi sconfiggere!!”.
Il
Cavaliere, allora, partì per la seconda volta all’attacco e di nuovo rischiò di
perdere la vita, parando all’ultimo momento i colpi poderosi del gigante.
Al
terzo tentativo, Artren lanciò il proprio cavallo in un galoppo sfrenato ed
incontrollato ed il gigante ebbe qualche difficoltà ad individuarne la
traiettoria per colpire il giovane, così quando sferrò il suo colpo tracciando
un ampio arco in aria, Artren non ebbe difficoltà a schivarlo gettandosi dalla
sella del cavallo.
Atterrò
prontamente in mezzo alle gambe del gigante e con due rapidi affondi, lo ferì
alle cosce trapassando la sua dura pelle.
Il
gigante gettò un grido e cadde a terra ed Artren ne approfittò per salirgli sul
petto e puntargli la spada alla gola.
“Mi
arrendo!” disse il gigante “mercé!”.
Artren
allora per non commettere villania, rinfoderò la spada e lasciò in vita il
gigante.
“Sei
davvero abile, Giovane Cavaliere, nonostante la tua età ed hai ardore e
coraggio da vendere. Posso concederti senza remore di prendere la Lancia e lo
Scudo del Fulmine, poiché mi hai dimostrato valore al pari dei loro precedenti
possessori” ed il gigante prese le armi e le diede ad Artren.
Con
somma gioia il cavaliere vide la lancia costruita in solido frassino e lo scudo
di quercia, entrambi rinforzati con il mitico ferro azzurro del Fencedhor,
capace di assorbire il potere dei fulmini per liberarlo durante i combattimenti.
Eylessime
e Cinthia accolsero il cavaliere con grande gaudio e la sacerdotessa lo baciò e
lo benedisse, poi lo condusse lungo il sentiero nebbioso che conduceva a valle
e con queste parole lo congedò: “oggi ho avuto prova che sei davvero un nobile
e valoroso guerriero, giovane Artren figlio di Nut, meriteresti di essere
annoverato fra i Cavalieri di Freleret e manderò una lettera a Re Geneddyn in
tal merito, tuttavia ora è tuo dovere liberare il regno di Gwyndin dalla
maledizione che lo affligge, oltre che riconquistare il tuo onore. A questo
proposito, ti do un consiglio che farai bene a imprimere a fuoco nel tuo cuore:
quando ti adoperi per aiutare uno sfortunato in difficoltà, ricorda sempre che
sei tu a dare e lui a ricevere, non viceversa, poiché l’aiuto sincero non
chiede riscatto”.
Artren
allora salutò Eylessime e si allontanò con Cinthia verso il castello di re
Gwyndin.
Grazie
alla conoscenza che la fanciulla aveva di quelle contrade, Artren non si perse
e riuscì in pochi giorni a raggiungere il Cavaliere Nero a guardia del Ponte.
“In
questa impresa io non posso aiutarti, Artren” disse Cinthia “poiché è tuo
destino compierla da solo. Mi fermerò nel villaggio più vicino ed attenderò il
tuo ritorno per tre giorni e tre notti, dopodiché se non sarai tornato, ti
considererò morto e tornerò ad Albion.
Artren
allora fu ben triste per la separazione, ma convenne con lei sulla saggezza
della decisione e si accomiatò.
Si
diresse al trotto verso il ponte, dove il Cavaliere Nero lo aspettava, lancia
in resta.
“Vedo
che possiedi la Lancia e lo Scudo del Fulmine, Giovane Cavaliere, me ne
rallegro, così potremo combattere ad armi pari, fatti avanti”.
Artren
partì allora al galoppo e si scontrò con il suo avversario. L’impatto fu assai
violento e tutti e due rischiarono di cadere disarcionati, ma riuscirono a
rimettersi in sesto e ripartirono.
Il
secondo impatto fu, se possibile, ancora più violento del primo ed Artren sentì
le proprie ossa scricchiolare sotto il colpo, ma lo scudo incredibilmente resse
benissimo e non mostrava segni di danneggiamento.
Quando
i due cavalieri spronarono i cavalli per colpirsi per la terza volta, la lancia
del Cavaliere Nero colpì in pieno lo scudo di Artren e si frantumò in mille
pezzi, mentre Artren riuscì a colpire in pieno petto il cavaliere, scagliandolo
lontano dal suo cavallo.
Artren
allora posò la lancia e sfoderò la spada. Girò il cavallo e lo diresse verso il
Cavaliere Nero che giaceva riverso a terra e gli puntò l’arma alla gola.
Il
Cavaliere Nero a quel punto gridò “mercè, Giovane Cavaliere, mi arrendo.
Considera riconquistato il tuo onore. Sono tuo prigioniero e mi metto al tuo
servizio”.
Artren
a quel punto ringuainò la spada ed aiutò Inelioch il Nero a rialzarsi e
mettersi in sella.
“Conducimi
alla corte del tuo Re” disse Artren ed Inelioch lo guardò tristemente scotendo
la testa, mormorò qualcosa poi disse “come tu comandi, ma ti ricordo,
Cavaliere, che se dovesse accadermi qualcosa mentre sono sotto la tua
protezione, il tuo onore sarebbe irrimediabilmente compromesso e questo solo
nella migliore delle ipotesi. Desideri ancora che ti accompagni oltre il
Ponte?”.
Artren
rispose di sì ed i due si incamminarono. Giunti che furono a metà del ponte, il
cavallo del Cavaliere Nero si imbizzarrì ed Inelioch fu sbalzato dalla sella e
cadde nel fiume.
“Artren!
Ti prego aiutami! Sono troppo pesante con l’armatura e non posso nuotare!”.
Artren
allora attraversò di gran carriera il ponte e con il suo cavallo entrò nel
fiume cercando di raggiungere Inelioch tendendogli la mano.
“Dammi
la mano, Inelioch, o non potrò salvarti! Presto, dammi la tua mano!” gridò
Artren, ma il Cavaliere Nero, per quanto si sforzasse non riusciva ad afferrare
la mano, ne’ Artren riusciva ad avvicinarsi quanto bastasse. Sembrava che una
forza invisibile li separasse.
All’improvviso
nella mente di Artren risplendettero le parole di Eylessime “sei tu a dare e
lui a ricevere, non viceversa”, allora Artren gridò con quanto fiato avesse in
corpo “Inelioch! Prendi la mia mano! Prendila!” e finalmente il Cavaliere Nero
riuscì ad afferrare la mano protesa di Artren che sorridente lo trascinò a
riva.
“Che
gli dei ti benedicano, Artren! Hai spezzato una parte della maledizione che
grava su queste terre! Devi sapere che io sono il figlio primogenito di Re Gwyndin e che io e i
miei due fratelli siamo stati intrappolati su quel ponte da un sortilegio di un
malvagio stregone nostro nemico.
Lo
stregone ha stipulato un patto con il demonio ed un Diavolo ci avrebbe impedito
di raggiungere il castello di nostro padre, a meno che non fosse sopraggiunto
il Cavaliere del Ponte e fosse riuscito a salvarci dalle acque del fiume. Io e
i miei fratelli ci battevamo per saggiare il valore e l’abilità dei cavalieri
che volevano passare, ma coloro che hanno battuto i miei fratelli hanno
lasciato che affogassero ed il diavolo è venuto e li ha uccisi crudelmente. Io
ero l’ultimo e temevo che la mia morte avrebbe significato la fine del regno,
invece sei giunto tu e posso dire senza indugio che sei il più grande cavaliere
che si sia mai visto”.
Artren
allora capì per quale motivo quel cavaliere difendesse il ponte con tanta
ferocia e si avvide che era davvero un triste destino, quello che segnava
quelle terre. Aiutò Inelioch a montare in sella e gli disse: “andiamo da tuo
padre e cerchiamo di porre fine a questa follia”.
Ma
quando entrambi si voltarono videro una scena terribile.
Un
enorme guerriero vestito di armatura nera si ergeva fra loro e il castello. Era
alto più di tre metri ed indossava un elmo cornuto brutto e nero a forma di teschio
al cui interno si scorgeva uno scintillio rossastro come di brace sul fuoco.
In
una mano teneva una mazza chiodata grande come la testa di un uomo e nell’altra
uno scudo nero e lucido e grande tanto da coprirlo fino alle ginocchia.
“E’
lui!” disse Inelioch “è il diavolo che mi ha impedito sino ad ora di
raggiungere il castello!”.
Artren
allora ebbe un moto di terrore, ché mai in vita sua aveva visto qualcosa di più
terrificante.
Si
accostò ad Inelioch e gli disse sottovoce “l’unica soluzione sembra quella di
abbatterlo, ma ora che lo vedo provo timore e me ne dolgo assai, poiché non
credevo che mai avrei provato una simile sensazione. Facciamoci coraggio e
proviamo assieme a sconfiggerlo, il nostro onore non ne risentirà poiché quella
è una creatura del Dio Senza Nome ed è dovere di ogni cavaliere sconfiggere il
male con qualunque mezzo”.
Inelioch,
che pure era colto da grande paura, tanto era orrido e spaventevole quel
diavolo, annuì e sfoderò la sua spada.
Artren
imbracciò la Lancia del Fulmine ed entrambi partirono contro il diavolo che li
attendeva silenzioso.
Sette
volte lo attaccarono e sette volte furono abilmente respinti e Artren ricevette
un duro colpo dalla mazza del diavolo che non lo uccise solo per la grande
virtù protettiva dello Scudo del Fulmine. Lo scudo di Inelioch era invece
andato in frantumi al terzo colpo ed il braccio sinistro del cavaliere giaceva
inerte sul suo fianco.
Il
diavolo a quel punto cominciò a parlare sibilando con una voce acuta e
terribile e disse “rinunciate, sciocchi bambini. Non vi permetterò mai di
arrivare al castello. Non vi permetterò mai di privarmi del divertimento che mi
procura l’affliggere queste terre. Andate o morite!”.
A
quel punto Artren ebbe un’idea e la rivelò ad Inelioch.
“Cavaliere”
disse “la nostra unica possibilità è di colpire quell’essere nell’unico punto
scoperto, fra l’elmo e le spalle. Prova ad attirare la sua attenzione mentre
cerco di colpirlo, ora và”.
Inelioch
allora spronò il suo cavallo mulinando la sua spada verso il fianco destro del mostro
e quando questo lo vide giungere sferrò un colpo che prese il Cavaliere Nero in
pieno petto, sbalzandolo dalla sella. In quel momento, però, la Lancia del
Fulmine imbracciata da Artren raggiunse il collo della creatura e si udì forte
rumore, come un tuono e l’elmo nero volò via dalla testa del diavolo, rivelando
una testa avvolta da fiamma nera in cui brillavano due fuochi rossi più piccoli
là dove avrebbero dovuto esserci gli occhi.
Il
diavolo allora fu preso da convulsioni e il suo corpo svanì in un lungo grido
di dolore.
Artren
smontò rapidamente da cavallo e accorse per aiutare il Cavaliere Nero che era
riverso a terra.
“Sto
bene” disse Inelioch “ma sono gravemente ferito. Il colpo del diavolo ha
perforato la mia corazza incantata. Temo che non potrò muovermi per molto
tempo”.
In
quel mentre, giungeva dal castello un araldo che quando vide il suo signore
disteso a terra e coperto di sangue, si mise a piangere credendolo morto.
Artren
tuttavia lo rassicurò: “nessuno che sia sotto la mia protezione, muore”. Si
fece aiutare dall’araldo e trasportò il cavaliere all’interno del castello,
dove fu affidato alle cure dei medici e dei cerusici del re.
Artren
venne svestito e curato e gli fu assegnata una stanza fra le più sfarzose del
maniero che tuttavia a parere del cavaliere, non aveva nulla a che spartire con
la stanza in cui era alloggiato al Monastero.
Il
re Gwyndin ricevette a cena Artren e gli offrì tutto quel che poteva che in
verità era un ben misero pasto, fatto di gallette e carne secca.
“Purtroppo”
si giustificò il re “da quando il diavolo si è messo a custodia del ponte
nessuno è mai potuto entrare o uscire dal castello ed abbiamo dovuto dare fondo
alle scorte preparate per gli assedi. Stavamo disperando poiché ormai
scarseggiavano e non saremmo durati più di qualche mese. Il vostro arrivo è
stato provvidenziale, cavaliere”.
“Ditemi,
mio signore, per quale motivo queste terre sono state maledette?”.
Il
re trasse un lungo sospiro sconfortato poi disse: “tempo fa un potente stregone
di nome Markon Faldar viveva qui a corte e mi offriva i suoi servigi in cambio
di ospitalità. A lungo mi domandai per quale motivo un uomo così orgoglioso
come lui, un potente stregone che ricopriva un alto rango all’interno
dell’Ordine di Ark, fosse interessato a vivere alla mia corte. Ahimè, scoprirlo
fu assai doloroso. Quello stregone, in realtà tramava per uccidermi ed usurpare
il mio trono.
Nel
tempo che trascorse qui, tuttavia, si innamorò di mia figlia e prese
l’abitudine di passarne molto con lei
insegnandole le arti magiche.
Lei,
saggia e scaltra, si rese conto dei pensieri che turbinavano nella mente del
mago e venne ad avvisarmi, così io ordinai alle mie guardie di catturarlo.
Fu
un errore, poiché in questa maniera lui gettò la maschera ed evocò il diavolo
che avete visto e strinse un patto con lui.
Quel
demonio avrebbe devastato queste terre a meno che non gli dessi in sposa mia
figlia e non abdicassi in suo favore. Io rifiutai e lui mise in atto la
maledizione di cui hai avuto modo di vedere gli effetti.
Non
solo, mia figlia venne rinchiusa dal demonio all’interno di una torre di questo
castello e da un anno non ho sue notizie, poiché quello stesso demone sorveglia
la porta impedendo a chiunque di raggiungerla”.
“Ma
ora il demonio è morto” disse Artren.
“Temo
che non sia così semplice” rispose il re “finché Markon vivrà il demonio non
potrà essere sconfitto, né ucciso. Quella che tu e mio figlio avete ottenuto è
stata solo una vittoria temporanea. L’unica maniera per spezzare questa
maledizione è uccidere il demone con un’arma che sia stata bagnata nel sangue
di Markon. Solo allora sarà possibile liberare le mie terre dall’incantesimo”.
Allora
Artren balzò in piedi pieno d’ardore e disse con veemenza “ebbene, sire, ditemi
dove si trova questo Markon ed io vi porterò la sua testa ed ucciderò
finalmente il demone!”.
Il
re allora si commosse per la lealtà e il coraggio del giovane cavaliere e gli
rispose che lo stregone possedeva una casa nella famosa città dei maghi. Ranespel era il nome di questa città e l’indomani i suoi servi lo avrebbero
armato e gli avrebbero indicato la strada da seguire per raggiungerla.
La
notte trascorse tranquillamente ed all’alba Artren fu svegliato. Il cavaliere
andò a far visita al suo amico Inelioch e lo trovò su di un letto con il petto
fasciato da morbide tele di seta. Gli raccontò l’impresa che si accingeva a
compiere ed il Cavaliere Nero si sciolse in lacrime, ringraziandolo e
benedicendolo.
“Verrei
con te per aiutarti, se le mie ferite me lo concedessero, tuttavia voglio farti
un dono che potrà risultarti utile in più occasioni. Prendi la mia spada: fu
costruita con il ferro azzurro del Fencedhor da un fabbro nano aiutato da un
mago elfo. Essa è chiamata la Spada del Fulmine ed ha sempre fatto coppia con
la Lancia e lo Scudo che già possiedi. La mia famiglia se la tramanda da
generazioni, ma sono ben felice di dartela, dacché conosco il tuo coraggio e il
tuo valore e so che farai qualunque cosa per aiutare il nostro regno. Ora và e
che Sulme stesso con tutti gli dei suoi figli, vegli su di te”.
Artren
allora partì di gran carriera e raggiunse il villaggio dove lo aspettava la sua
compagna, la fanciulla Cinthia. Quando la trovò ella fu assai lieta e gioiosa e
disse “immaginavo che la tua avventura ti avrebbe portato a Ranespel, hai riconquistato
il tuo onore e da ora in poi ti seguirò ovunque senza esitazione e senza
vergogna. Ordunque andiamo e non perdiamo tempo, ché il viaggio è lungo!”.
I
due allora si misero in viaggio di gran carriera fermandosi solo per dormire e
consumando i pasti cavalcando. In questa maniera raggiunsero Ranespel in due
settimane.
Si
trovavano sulla cima di una collina e vedevano la città estendersi ai loro
piedi, nella sua forma inconsueta.
Ranespel,
infatti, era stata costruita seguendo gli schemi tortuosi degli incantesimi, in
modo tale che le strade, le case e le mura formassero un unico, grande simbolo
arcano che serviva a proteggere i cittadini dagli spiriti malvagi.
La
città si stendeva tutt’attorno ad un grande edificio centrale che era l’antico
Palazzo dei Profeti, oggi chiamato Palazzo del Conclave poiché era la sede del
governo cittadino composto da dodici Consiglieri scelti periodicamente dai
Cittadini.
Nella
sua parte nord, la città si inerpicava su una montagna e sulla sommità vi era
un altro grande edificio famoso in tutto il mondo: l’Università delle Scienze
Magiche di Ranespel. Era considerato il centro della conoscenza e della
saggezza di tutto il mondo e nella sua biblioteca erano contenuti migliaia di
libri di arcani incantesimi, assieme ai più comuni libri di filosofi e
letterati, poeti e scienziati di tutto il mondo.
Il
pensiero di tutto ciò intimorì un poco Artren e occorse che Cinthia lo
prendesse per mano, perché trovasse il coraggio di dirigersi verso l’entrata.
Le
porte della città non erano meno imponenti del resto del luogo ed Artren rimase
senza fiato a vedere i famosi Golem, ovvero le statue di ferro poste ad
entrambi i lati dell’entrata, alte dieci metri ciascuna e scolpite a sembianza
di prodi cavalieri. Entrambe le statue stringevano ciascuna due spadoni
affilatissimi che un uomo normale avrebbe dovuto impugnare a due mani e si
diceva che fossero armi incantate e che le statue prendessero vita, quando un
esercito nemico provasse a minare la sicurezza dei suoi abitanti.
Un
uomo in tunica nera si accostò al cavaliere e la fanciulla per la tassa
doganale e li fece entrare nella città.
“Ora
come agiamo?” chiese con aria smarrita Artren.
“Vedo
che hai già capito che qui non è come nel Fencedhor da cui proveniamo. I
cavalieri non godono di diritti speciali e se agissimo avventatamente verremmo
arrestati come chiunque altro. La cosa più saggia da fare, Artren, è di recarci
alla sede delle Tuniche Nere, i maghi guerrieri che sorvegliano la pace di
questa città e chiedere il loro ausilio affinché ci consegnino Martok” disse la
fanciulla Cinthia ed Artren annuì impotente, lasciando che fosse lei a condurlo
per le strade di quella città.
Trovare
la gendarmeria delle Tuniche Nere si rivelò piuttosto facile, mentre il
difficile fu convincere i soldati a condurli dal loro Generale.
Occorsero
molte ore, grande pazienza e tutta la capacità diplomatica di dama Cinthia per
riuscirvi ed infine furono condotti nell’ufficio del Generale da una Tunica
Nera piuttosto scontrosa ed irritata.
Il
Generale si rivelò una persona di mezz’età, con i capelli bianchi come
l’avorio, molto robusto ed affabile. Accolse Artren e la fanciulla con tutta la
cortesia possibile ed ascoltò il loro racconto.
“Ciò
che dite, Cavaliere del Fencedhor, è assai grave. State accusando un eminente
cittadino di aver compiuto delle malefatte che lo condannerebbero a morte. Non
posso concedervi di andare da Martok per vendicarvi, ma posso farlo chiamare
per interrogarlo ed avviare delle indagini per verificare il vostro racconto”.
Così disse e così fece. Chiamò dei suoi luogotenenti e comandò loro di scortare
l’arcimago Martok nel suo ufficio.
Nel
frattempo Artren era rimasto ad osservare l’ambiente in cui si trovava.
Si
era aspettato che l’ufficio del Generale fosse ricco e sfarzoso, persino
opulento, invece sembrava un omaggio all’austerità. Le pareti erano spoglie,
fatta eccezione per qualche scudo appeso qua e là con degli strani simboli
incisi, ed un piccolo arazzo subito dietro la scrivania.
Sul
pavimento c’era solo un tappeto, invero dall’aspetto assai prezioso, di buona
fattura, ampio e dai colori sgargianti ed una piccola finestra dal lato opposto
del camino, affacciava sul cortile interno della gendarmeria.
La
porta dell’ufficio si aprì ed un luogotenente entrò annunciando che l’arcimago
era infine giunto. Il Generale diede ordine di farlo entrare e congedò il suo
ufficiale.
“Vi
consentirò di rimanere perché voglio verificare alcune cose, ma dovete rimanere
fermi ed in silenzio” disse ad Artren e Cinthia.
Quando
l’arcimago entrò nella stanza, Artren ebbe finalmente modo di vederlo e sentì
il sangue ribollirgli nelle vene al pensiero che quell’uomo fosse la causa di
tanta sofferenza.
Lo
stregone era particolarmente giovane ed aveva dei capelli color nocciola molto
ben curati. Il viso era duro e forte e camminava con passo rapido e sicuro,
quasi arrogante. I suoi abiti erano quantomai ricchi e preziosi, con arabeschi
e rifiniture in oro ed argento. Alle dita indossava diversi anelli e portava
con se un bastone di quercia dritto ed elegante, finemente intarsiato e
rinforzato con argento, oro e pietre preziose.
L’arcimago
spostò con aria di sufficienza lo sguardo nella stanza del Generale e si
soffermò brevemente sui suoi due ospiti, arricciando il naso, poi strizzò gli
occhi e fissò con insistenza la fanciulla Cinthia gelando sul posto.
“Arcimago”
chiese il Generale a cui non era sfuggito il gesto “riconoscete questa
ragazza?”.
In
quel momento il mago si rese conto d’essersi fermato ed alzò lentamente lo
sguardo verso il Generale rispondendo “no, signore, ammiravo solamente la sua
bellezza”.
“Eppure
queste persone sostengono di conoscervi, almeno per fama, ed hanno raccontato
cose assai spiacevoli, su di voi” proseguì il generale con noncuranza.
“Temo
di non sapere di cosa stiate parlando, Generale, vedo queste persone per la
prima volta in vita mia”.
“Tu
menti!” gridò Artren balzando in piedi e sfoderando la Spada del Fulmine.
“Riconosci
questa spada, non è vero? Apparteneva ad un prode cavaliere che hai
intrappolato con i tuoi perfidi malefici ed io sono giunto qui per prendere la
tua testa come riscatto per le tue malefatte!”.
L’arcimago
guardò il cavaliere con uno sguardo misto di ribrezzo e pietà, poi con un
sorrisetto divertito si rivolse al generale “sono dunque stato chiamato perché
questi villani potessero insultarmi con le loro illazioni? Mi stupisce sempre
di più come voi Tuniche Nere riusciate ogni giorno a coprirvi sempre più di
ridicolo”.
Il
Generale lanciò un’occhiata infuocata verso il Cavaliere poi congedò l’Arcimago
e disse loro: “sciocchi ignoranti! Come pretendete che possa aiutarvi se venite
qui e a gridare e sbraitare? Non siamo nel Fencedhor, dove le dispute si
risolvono a fil di spada o a colpi di lancia. Qui si segue la legge in maniera
scrupolosa. Vi siete giocati la possibilità di un’indagine rapida. Ora non mi
resta che mandare un ispettore nel luogo da cui provenite per accertare la
veridicità di quanto mi avete raccontato. Adesso andate, alloggerete nella
locanda qui vicino e tenetevi a disposizione nel caso avessi bisogno di voi”.
Artren
e Cinthia vennero quindi alloggiati in locanda e la dama dovette fare una gran
fatica a convincere il cavaliere a non andare a sfondare la porta della casa di
Martok in sella al suo cavallo.
“E’
un luogo di barbari” disse “quello in cui ad un cavaliere non è concesso di
porre fine alla vita di un essere abbietto e malvagio come Martok Faldar!”.
“E’
un luogo difficile” rispose Cinthia con aria stanca “ma tutela i semplici e i
buoni da quei cavalieri che credono di possedere il mondo in virtù della
propria forza”.
Artren
rimase in silenzio, colpito da quelle parole e si lasciò condurre di nuovo da
Cinthia per le strade di Ranespel.
Venne
la notte ed entrambi andarono a dormire.
Durante
il sonno, Artren fu svegliato all’improvviso da un forte rumore proveniente
dalla stanza accanto dove riposava la sua compagna. Immediatamente si vestì e
prese la spada.
Quando
uscì nel corridoio della locanda, rimase stupefatto. La porta della stanza di
Cinthia era spalancata ed eruttava fiamme di tutti i colori.
Immediatamente
Artren a sprezzo del pericolo si precipitò nella stanza e trovò Cinthia e
Martok impegnati in un duello di incantesimi.
Martrok
allora lanciò un incantesimo che sconfisse le difese di Cinthia e la fece
volare per la stanza, scaraventandola sulla parete opposta, quindi si girò
verso Artren e sorrise tendendo le mani verso di lui.
Prima
che il cavaliere potesse fare alcunché, dalle mani dell’arcimago partirono dei
fulmini che crepitarono in direzione di Artren. Il giovane allora alzò
d’istinto la spada come per parare un fendente e questa assorbì completamente
le saette del mago.
Artren
era stupito alquanto e l’arcimago imprecò e si protese per lanciare un nuovo
incantesimo. Il giovane tuttavia non perse l’occasione e si mosse con rapidità
e fece uno scatto in avanti sferrando un affondo verso il mago e infilando la
lama della spada nel suo stomaco. Sia la spada che il mago crepitarono e si udì
un rumore di tuono, poi fu il silenzio e il mago cadde a terra, morto.
Immediatamente
nella stanza irruppero decine di Tuniche Nere che, nel più completo e
disciplinato silenzio disarmarono un Artren stupefatto, si occuparono di curare
Cinthia ed esaminarono il corpo dell’Arcimago.
Dopo
qualche minuto sopraggiunse anche il Generale che, vista la scena, diede ordine
di liberare il cavaliere e gli si avvicinò.
“Avevo
capito che la vostra storia era vera, quando ho veduto Martok esitare alla
vista della dama. L’Arcimago sapeva che era solo questione di tempo, prima che
ci fossimo accertati di quel che aveva fatto, così ha evidentemente deciso di
agire stanotte stessa contro di voi” gli disse.
Osservò
allora la scena che gli si parava innanzi, poi tornò a rivolgersi al cavaliere
e soggiunse “prevedendolo, avevo dato ordine di farvi sorvegliare, tuttavia i
miei soldati sono stati sopraffatti mentre montavano di guardia e solo uno è
riuscito a fuggire per avvisarmi. Martok era indubbiamente un mago di grande
talento ed aveva immaginato le mie mosse. Mi stupisce, tuttavia, che siate
sopravvissuti al suo attacco. Evidentemente Elkent il santo veglia su di voi”.
Artren
allora spiegò al Generale che si era salvato solo grazie alle virtù magiche
della sua spada, e per questo doveva ringraziare Inelioch il Cavaliere Nero il
quale, in questa maniera, aveva ottenuto la sua vendetta.
Pochi
giorni dopo Artren e Cinthia ripartirono per il regno di Gwyndin.
Il
cavaliere era di pessimo umore, poiché non osava confessare alla dama che
quando Martok l’aveva stordita, nel timore che fosse morta il suo cuore gli era
balzato nel petto, colto da profondissima disperazione.
Ormai
Artren sentiva d’essersi innamorato della fanciulla che era effettivamente
bellissima, ma temeva che lei non lo ricambiasse e che, se anche fosse stato,
le sue origini umili avessero potuto rappresentare un ostacolo insormontabile
al loro amore.
Fu
quando il viaggio volse quasi al termine, che Cinthia si accostò ad Artren e lo
prese per mano.
“Quali
oscuri pensieri ti angustiano, mio signore?” gli domandò “poiché è evidente che
il tuo cuore non riesce a trovare riposo, da quando abbiamo lasciato Ranespel”.
Artren
allora guardò la fanciulla negli occhi ed ella arrossì. Egli a quel punto diede
fondo a tutto il suo coraggio, un coraggio che gli aveva permesso di affrontare
un diavolo del Dio Senza Nome, ma che quasi veniva meno nell’affrontare il
sorriso della donna amata.
Le
disse “mia dama, il mio cuore è invero straziato, poiché solo ora mi rendo
conto di avervi amata sin dal primo istante che vi ho vista. Temo, invece, che
voi possiate ridere di me. Ridere di un cavaliere che ha dedicato tutta la sua
vita alla ricerca di avventure, fama e gloria e che ora è disposto a rinunciare
ad ogni cosa a prezzo di vivere anche un solo giorno da vostro amante”.
La
dama Cinthia allora indietreggiò e guardò con grande stupore il cavaliere. Da
quel momento più non disse una parola e si ritirò discretamente per riposare in
vista dell’ultima tappa del viaggio.
Artren
si sentì il mondo mancare sotto i piedi e si ritirò anch’egli a piangere sul
suo giaciglio.
Il
mattino dopo, gli occhi di Artren avevano consumato ogni lacrima possibile ed
una cupa determinazione bruciava il suo animo.
Lui
e Cinthia non si scambiarono una sola parola e proseguirono per il viaggio.
Giunsero
infine al villaggio più prossimo al castello di Re Gwyndin con il popolo che lo
acclamava con grande gioia e letizia ché ormai si era sparsa la voce della sua
missione.
Quando
i due stavano per abbandonare il villaggio, Cinthia si fermò e chiamò Artren.
Il
cavaliere girò il cavallo e tornò immediatamente da lei, con gli occhi pieni di
speranza.
“Rinunzieresti
davvero ad ogni cosa?” domandò lei.
“Senza
ombra di dubbio” rispose lui.
“Allora…”
proseguì incerta lei “io ti aspetterò qui… se tornerai per me… allora sarò
tua”.
Artren
si sentì più felice che mai e giurò su tutti gli dei che sarebbe tornato per
prenderla in moglie non appena terminata questa missione e lei gli diede un
bacio e lo lasciò andare dopo averlo raccomandato agli dei.
Artren
partì di gran carriera per il maniero di Gwyndin con tanto ardore che in quel
momento sarebbe stato in grado di conquistare un regno intero.
Giunse
sulla riva del fiume e imboccò il ponte.
Attraversatolo,
si fermò in attesa del Demonio.
L’attesa
durò per diversi, logoranti minuti in cui Artren cominciò a temere che il
Diavolo non si sarebbe mostrato, per dannarlo in eterno e impedirgli di
compiere la propria missione e tornare da Cinthia.
Proprio
quando la disperazione stava per prendere il sopravvento, un debole venticello
gli scosse la fulva chioma e dove prima non c’era altro che l’orizzonte,
comparve la figura gigantesca del Demone.
La
sua figura era diversa e pareva persino più terrificante, con tre teste
zannute, gambe caprine ed ali da pipistrello sulla schiena, ma Artren non si
perse d’animo e, lancia in resta, spronò il proprio cavallo al galoppo verso il
Demone.
Il
combattimento fu duro e sanguinoso ed entrambi subirono gravi danni.
Ad
un certo punto, Artren diede un colpo di lancia così violento sullo scudo del
demone, che scudo e lancia si spezzarono. Il Demone si ritrovò riverso in terra
ed Artren fu sbalzato di sella.
Il
Demone fu il primo a rialzarsi e si portò sopra Artren cercando di schiacciarlo
con la sua mazza ferrata, ma il cavaliere schivò il colpo rotolando di lato e
rialzandosi.
Artren
allora sfoderò la Spada del Fulmine intrisa del sangue di Martok e la mostrò al
demone.
“Guarda,
Demonio! Questa spada è macchiata del sangue del tuo evocatore e con essa io ti
rispedirò nell’Antro Oscuro e potrai dire al Dio Senza Nome che è Artren,
figlio di Nut che ti manda!!”.
Il
giovane cavaliere allora si gettò all’attacco mulinando la spada.
Il
primo attacco venne schivato dal demone, che sferrò un poderoso colpo di mazza
colpendo Artren sullo Scudo del Fulmine, incrinandolo.
Il
secondo attacco andò un po’ meglio ed il cavaliere con un ampio fendente riuscì
a ferire il braccio del Demone, parando il suo colpo con lo scudo.
Al
terzo attacco, il Demone spaccò lo Scudo del Fulmine spezzandovi sopra la sua
mazza, tanto il colpo era potente ma Artren lo aveva previsto e sfruttò la
forza del colpo unita alla sua e con un abile gioco di gambe le diresse verso
il mostro eseguendo un affondo così preciso e forte, che perforò la corazza del
Demone, affondando la spada sino all’elsa nel suo addome.
Fu
così che Artren, figlio di Nut uccise il Demone e liberò il regno di Re Gwyndin
dalla maledizione che lo affliggeva.
Il
Re e tutta la sua corte uscirono allora dal castello, dal quale avevano seguito
ogni attimo del duello e vennero incontro ad Artren, riempiendolo di lodi e doni
e ringraziamenti assai grandi e belli.
Quando
fu il turno del Re, egli si inchinò di fronte ad Artren e gli baciò la mano in
segno di rispetto, dichiarandolo salvatore del regno.
“Ma
infine, come mio ultimo dono, posso solo offrirti in sposa mia figlia, che con
le tue gesta hai salvato, ed il mio regno, che con la mia morte sarà tuo”.
Allora
Artren si gelò sul posto.
Che
dama Cinthia avesse previsto questa possibilità? Era per questo che si era
rifiutata di ricambiare il suo amore sino a quel momento?
Artren
rimase a lungo in silenzio. Troppo a lungo, al punto che il Re rimase a disagio
e lui e tutti i suoi cortigiani cominciarono a sentirsi insultati dalla
reticenza del Cavaliere.
Artren
dal canto suo non sapeva cosa fare. Da un lato vedeva ciò che aveva sempre
sognato: fama, gloria, un regno e la nomina a Cavaliere di Freleret. Dall’altro
lato, c’era dama Cinthia che in quelle settimane che aveva trascorso in viaggio
con lui, aveva rapito del tutto il suo cuore.
Cosa
scegliere?
La
sua ambizione, portando una ferita incurabile nel cuore, o l’amore,
rimpiangendo continuamente ciò che avrebbe potuto avere?
Quando
il silenzio di Artren divenne eccessivo, il Re disse “Cavaliere, sarai pure il
nostro salvatore, ma questo non ti da il diritto di insultarci così
profondamente. Per quale motivo non rispondi? Per caso disprezzi l’idea di
entrare nella mia corte?”.
Allora
Artren sembrò riscuotersi e con queste parole si rivolse al Re: “no, mio sire,
non vi disprezzo affatto e non posso immaginare un dono più grande di quello
che intendete farmi…” e rimase ancora in silenzio, poi riprese “…tuttavia devo
mostrarmi costretto a rifiutarlo”.
Tutti
a quel punto trattennero il fiato, e si sentirono profondamente umiliati da
quelle parole.
“Non
fraintendetemi, ve ne prego, ma il mio cuore appartiene ad un’altra donna che
mi ricambia e nessun dono, nessuna ricchezza, nessun regno, potrebbe mai
rendermi la felicità che proverei, vivendo assieme ad ella anche solo come
umile contadino” detto questo, Artren prese la Spada del Fulmine dal cadavere
del Demone e la piantò nel terreno fra lui ed il Re.
“Restituite
questa spada a vostro figlio Inelioch, Mio Signore e ringraziatelo da parte
mia, essa mi è stata davvero utile. Per quanto concerne vostra figlia, non
datela in sposa a nessuno che lei non abbia prima scelto di amare e lasciate il
vostro regno in mano ad un cavaliere più meritevole di me”.
Così
detto, Artren saltò in sella al proprio cavallo e galoppò via, fra lo sconcerto
di tutti.
“Mio
Signore!!!” giunse all’improvviso una voce dal castello.
Il
Re guardò una delle sue guardie correre verso di lui di gran carriera e gli
andò incontro, chiedendogli cosa accadesse.
“Vostra
figlia, Mio Signore, non è nella Torre come pensavamo!!” disse disperata la
guardia.
“Che
cosa?!?” gridò sconvolto il Re “ma allora dove si trova?!?”.
E
si scatenò un tumulto di voci fra i cavalieri, i cortigiani ed i soldati ed il
tumulto si placò quando una voce argentina sovrastò tutte le altre.
“Rivedrai
tua figlia molto presto”.
A
parlare era stata la Sacerdotessa Eylessime, che uscì dalla folla levando il
cappuccio che gli celava il viso.
“Mia
Signora!” esclamò stupefatto il re “cosa ci fate qui? E dove si trova mia
figlia?”.
“Sono
venuta qui per vedere l’esito di questo filo del destino. Riguardo tua figlia,
l’ho sottratta mesi fa dalla sua prigionia a costo di grande sforzo e l’ho
tenuta presso di me al Monastero, sinché Martok non se n’è accorto ed ha
provato a farla rapire dai suoi agenti.
Fortunatamente
un prode cavaliere l’ha incrociata per caso e l’ha salvata dal suo destino ed
ora è sana e salva”.
Il
Re pianse allora di gioia, ma non poté trattenersi dal domandare “ma allora,
Mia Signora, dove si trova ora mia figlia?”.
La
Sacerdotessa Eylessime sorrise allegramente e rispose “non so di preciso dove
sia, ma è assolutamente al sicuro e per qualche giorno credo che non si farà
vedere. Sicuramente tornerà ed io sarò qui ad aspettarla per celebrare il suo
matrimonio”.
“Mia
figlia si sposa? Senza consultarmi prima?” disse il Re sconcertato.
“Ebbene
si, Gwyndin, e non potrai farci nulla, ma rassicurati poiché poco fa la stavi
offrendo in moglie al suo futuro sposo. Ora prepariamo i banchetti per la festa
di matrimonio fra la principessa Cinthia, figlia di Gwyndin e il conte Artren,
figlio di Nut”.-
Thair
e il vecchio sacerdote erano finalmente giunti alle porte di Rhone che erano in
procinto di chiudersi per la notte.
-
Il vostro racconto è stato davvero bello, Sacerdote, uno dei pochi che non
conoscevo sulla storia del Fencedhor antico. Farò in modo che venga messa per
iscritto e cantata dai bardi del regno- disse Thair.
-
Voi mi rendete troppo onore, cavaliere - disse il sacerdote – io non sono altro
che un servo degli dei e faccio in modo che le antiche storie di onore e amore
vengano diffuse, così che possano ispirare nuove gesta altrettanto pure e pie.
Ora, vi ringrazio per avermi accompagnato sino a qui, da adesso proseguirò da
solo e non vi arrecherò ulteriore disturbo-.
-
Nessun disturbo, sacerdote, è stato davvero un piacere, addio e che Freleret vi
preserv…-.
La
frase di Thair fu spezzata da un fragoroso rutto proveniente alle sue spalle,
il cavaliere si girò e vide un nano dalla folta barba nera che lo guardava dal
basso in alto tenendo le mani piantate sui fianchi.
-
Sei in ritardo – disse il nano.
-
Dannato di un Dolvar! Sia maledetto il giorno in cui ti ho incontrato! -.
-
Ringrazia la tua amichetta emaciata, volpacchiotto, ed ora vieni che l’Arciduca
ti aspetta-.
-
Dammi il tempo di accomiatarmi da questo sacerdote, nano blasfemo!-.
-
Quale Sacerdote?- chiese il nano guardando dietro Thair. Il cavaliere allora si
voltò e vide che il sacerdote con cui era giunto in città era svanito nel nulla
e si stupì, dal momento che uno come lui era abituato ad accorgersi di ogni
minimo movimento.
Thair
si guardò intorno per alcuni minuti sotto lo sguardo corrucciato del nano, che
intanto si grattava elegantemente le natiche.
-
Nessun sacerdote… - mormorò Thair e si allontanò con il suo amico.
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