martedì 23 settembre 2014

Racconti Dimenticati - Un alchimista

Racconti Dimenticati

Un Alchimista


“Ebbene, straniero, cosa vi porta in questo luogo di ristoro?” l'elfo dietro il bancone stava pulendo il boccale di birra che gli era appena stato restituito da quell'uomo dall'aria sfatta che continuava ad ordinare da bere.
L'uomo aveva gli occhi arrossati degli insonni ma sedeva con una certa compostezza dignitosa anche se un po' forzata, sembrava sull'orlo di un tracollo. I suoi abiti erano puliti e ben ordinati e contrastavano bizzarramente con la sua capigliatura corta e priva di garbo. Reggeva il boccale con la mano destra che talora tremava nel portare il liquore alle labbra ed il suo sguardo oscillava fra una fermezza ed intensità degni d'un grande avventuriero ed un guizzare incerto e spaventato che si presentava ogni qualvolta un'ombra si muovesse accanto a lui. In quei momenti anche il resto del corpo sembrava tendersi, pronto a qualche scatto di follia, al punto che un occhio disattento poteva facilmente attribuire quelle due immagini a persone differenti. Effettivamente l'impressione complessiva emanata da quell'individuo era di duplicità, sembrava un vaso rotto tenuto assieme da lacci di cuoio usurati e pronti a rompersi alla prima occasione.
“Buon oste, come dite voi, ciò che cerco è proprio ristoro. I miei nervi sono irreparabilmente scossi e necessito di un lungo periodo di riposo perché possa dimenticare gli orrori cui ho assistito negli ultimi tempi” rispose, persino la sua voce sembrava rispecchiare lo stato precario in cui si trovava, passando occasionalmente da un timbro caldo e profondo ad una stridula raucedine.
“Avete scelto il luogo giusto messere, la corte di Re Tinwe Linto è il luogo dove i viaggiatori di tutti i reami possono riposarsi e rinfrancarsi fra un viaggio e un’avventura, eppure voi siete qui da almeno venti giorni ed ho potuto notare che siete sempre rimasto in disparte a bere. Non vi siete mai unito alle danze, non avete mai scambiato parola con gli altri avventori. Talvolta non scendete nemmeno nella sala comune e trascorrete intere giornate in camera vostra” disse l'elfo distrattamente mentre cominciò a strofinare il boccale ostentando una concentrazione ed accuratezza tali che avrebbero fatto pensare stesse per servirlo ad un re.
Con una nota di divertimento l'uomo rispose “uomini, elfi o nani, gli osti sembrano essere tutti uguali, quasi fossero una razza a parte. Credevo che a Valis Lobelas si venisse per riposare e non per essere sorvegliati”.
“Teniamo a mantenere una certa fama” rispose l'elfo, piccato “e quando ci accorgiamo di un cliente affranto che non mostra segni di miglioramento, ci preoccupiamo di scoprire cosa non lo aggrada”.
“Vi assicuro che non vi è alcuna manchevolezza nel vostro servizio” si affrettò a chiarire l'uomo, poi con un tono di rammarico “e se vi è qualcosa di manchevole, qui, quello sono io”.
“Cos'è che vi cruccia?”.
“Non ho il cuore di dirvelo”.
L'elfo posò allora risolutamente il boccale che stava pulendo e tolse di mano all'uomo quello ancor mezzo pieno di birra, poi prese due bicchierini da grappa ed una bottiglia piena d'un liquore giallino dalle mensole del bancone, posò i bicchierini e li riempì.
“Bevete questo” disse “senza storie”.
L'uomo rimase stupito dalla reazione inaspettata dell'elfo e quando ne incrociò lo sguardo, lesse una risolutezza con la quale evidentemente sentì di non poter combattere, poiché si rassegnò a bere il suo bicchiere.
Un calore confortevole, quasi rassicurante, si spanse nella gola dell'uomo che rimase stupito del sapore zuccherino di quel liquore, tanto che si domandò se non si trattasse di una pozione alchemica uscita da qualche laboratorio. Ma sarebbe stata una pozione troppo maledettamente buona.
“Che cos'è?” domandò infine, cedendo alla curiosità.
“Un cordiale a base di succo di mela; i frutti provengono da una radura nascosta nella foresta Kalia, un luogo che si dice solo chi è in pericolo di vita sia in grado di trovare”.
“Se è così, come fate ad averne abbastanza da produrci una bevanda?” chiese furbescamente l'uomo e l'elfo rispose con un sorrisetto.
“Suvvia, ora raccontatemi di voi. Chi siete e da dove venite?”
L'uomo fece qualche altro sorso, prima di rispondere. Nel frattempo il suo viso si era fatto più colorito.
“Mi chiamo Salamdar Dervishi, porto il nome di mio nonno, un mercante sadiano che si era stabilito a Daconia. Comunque non ho mai vissuto al sud, mio padre era scappato a Wankrurneel da ragazzo, dove si era messo nei guai con la figlia di un borghesotto del posto. Per questo non ho mai conosciuto mia madre e sono vissuto a Ranespel come un ladruncolo. Comunque appena ho raggiunto l'età per andargli contro senza buscarle, l'ho piantato in asso, sono scappato e mi sono arruolato nelle Tuniche Nere. Ne sono uscito cinque anni fa, quando il Generale si è reso conto che gli ero più utile come spia ed esploratore che come soldato effettivo”
“Dunque siete anche esperto di magia”
“Ne so qualcosa! Ma non ho mai voluto approfondire granché. I maghi viaggiano fin troppo con la testa, sarei più un alchimista se m'interessasse sfacchinare, se proprio devo usare incantesimi preferisco conservare le energie ed utilizzare bacchette, anelli, pozioni, polveri ed altre sostanze o cerchi impressi su pergamene, tutta roba già bell'e pronta per l'uso, qualche trucchetto me lo so anche preparare da me” concludendo con l’ultimo sorso.
“Mi sembra giusto”.
Salamdar si era fatto servire un altro bicchiere di cordiale e ci si stava avventando.
“Ebbene, continuate, cosa vi ha portato qui?”
Arrestò il bicchiere a mezz'aria, quasi versando qualche goccia di liquore.
“Circa un anno fa, il Generale mi ha mandato in missione oltreoceano. Ho visto cose orribili. Al mio ritorno sono venuto direttamente qui. Non ho la forza per tornare e fare rapporto”.
“Se continuate a restare solo con i vostri ricordi, rischiate di non trovare mai più questa forza”.
“E come potrei mai fare?”
“Immergetevi totalmente in essi, non cercate di sfuggir loro”.
Salamdar guardò l'elfo in tralice, con aria sospetta “Chi vi dice che io li fugga?”
“Fuggire non è ciò che avete fatto da quando siete tornato dalla vostra missione? Prima dal vostro Generale ed ora che siete qui, dagli altri avventori e da me. Ma non potrà durare ancora a lungo e lo sapete bene”.
L'uomo fissò l'elfo per alcuni minuti, poi chinò lo sguardo, sorseggiò ancora del liquore come per farsi forza e disse “beh, cominciò tutto quando il generale mi convocò...”

giovedì 18 settembre 2014

Miniracconto Dimenticato IV

C'era una volta una grande foresta magica e maestosa.
Dentro questa grande foresta vivevano ogni sorta di animali. Fra questi animali, vi erano una formica e una cicala.
La formica era una gran faticatrice, passava le sue giornate adempiendo ai suoi impegni, costruendo il suo formicaio e cercando in giro il cibo che le sarebbe servito per affrontare il lungo inverno.
La cicala, dal canto suo, trascorreva tutta la primavera e l'estate appollaiata su una foglia o su un sasso a cantare e suonare, spesso circondata da tante belle falene che accorrevano a danzare sulle sue note.
Formica e cicala erano famose in tutta la foresta, per essere l'una invisa all'altra sin dai tempi dei tempi, per cui anche gli altri animali della foresta ormai parlavano di loro per come a volte si sente parlare di cani e gatti o volpi e lepri. D'altronde loro stesse non lasciavano adito ad ambiguità su ciò che pensassero l'una dell'altra e non di rado mastro Riccio aveva sentito la formica dire della cicala “quel buono a nulla niente altro fa che cantare e ballare dalla mattina alla sera, non s'avvede del tempo che passa ne' guarda al futuro, non ha casa e non ha mestiere, bighellona tutto il giorno con le amiche sue falene e quando cala la sera resta sveglia fino a tardi e tardi s'alza la mattina, io proprio non comprendo cosa ne intenta della vita quella!”, mentre di converso signora Lepre aveva sovente udito parlare la cicala della formica in questi termini “ah, quello sciocco senz'amore in null'altro s'adopera che il lavoro, affannandosi a correre innanzi e addietro, a ponente e levante, tutto impettito con l'aria urgente di chi non ha tempo per nulla, e nulla vede di ciò che gli sta d'intorno, della bellezza delle foglie, del sapore della rugiada, della voce del vento, non vede ciò che il mondo gli dona ogni giorno ne' coglie l'attimo ma si prepara ad un domani di cui non ha certezze!”.
E questa era la loro vita e tutti gli animali li guardavano e sospiravano ché già sapevano di altri come loro che in tempi remoti avevan giocato allo stesso gioco, oggi eran morti e sepolti senza che mai si fossero ascoltati e così tutti i loro discendenti.
Accadde che un bel giorno un folletto annoiato decise che per divertirsi avrebbe voluto vedere cosa fosse accaduto se formica e cicala avessero saputo l'uno delle parole dell'altro. Egli uscì allora del suo nido nell'incavo di un albero, si lisciò le alette e se ne svolazzò in cerca di uno dei due.

mercoledì 17 settembre 2014

Racconti Dimenticati - il cavaliere del ponte

Racconti Dimenticati
Il Cavaliere del Ponte


L’aria era frizzantina come sempre nelle prime ore del mattino, il lento scalpiccio degli zoccoli del cavallo sulle pietre sconnesse del sentiero produceva un ritmo quasi soporifero.
Un uomo in tenuta da viaggio cavalcava lentamente godendosi la vista del paesaggio montano illuminato dai primi raggi del sole.
Il sentiero curvava a ridosso di una rupe e il cavaliere spostò la sua cavalcatura sul lato opposto della strada per evitare eventuali massi frananti; il cavallo obbedì docilmente e superò il passo con rapidità ma si vide costretto a fermarsi quando le briglie del morso strinsero e tirarono indietro.
Lungo la strada, un vecchio vestito con una larga tunica bianca stretta in vita da una corda e dei sandali rotti ai piedi riposava appoggiato ad una roccia.
Il cavaliere smontò e si diresse verso di lui.
- Serve aiuto, pellegrino?- chiese.
Il vecchio sembrò destarsi improvvisamente ed alzò di scatto il viso nella direzione da cui era provenuta la voce.
- Oh, mio signore, se fosse possibile si. – rispose con gratitudine l’anziano - Sono un vecchio sacerdote errante di Nukulmé la tempestosa e mi stavo recando nella città di Rhone per visitare l’ultima cattedrale del Dio Freleret ancora in piedi dall’ultima Guerra Nera. Il mio destino si è rivelato tuttavia infausto, perché nel bel mezzo di questo sentiero montano i miei calzari si sono rotti e i miei vecchi piedi non riescono a sopportare la dura pietra su cui ci troviamo-.
- Allora la tua fortuna ha girato nuovamente, sacerdote, perché sono originario di quella città e vi sto tornando da un viaggio. Vieni, ti aiuterò a montare sul mio cavallo e ti scorterò sino a destinazione- fece il cavaliere conducendo il suo cavallo accanto al Sacerdote.
- Ah, cavaliere, vi sarò eternamente grato! Purtroppo non ho nulla per ricompensare la vostra gentilezza, se non condividendo con voi la saggezza dei racconti popolari.
Vi racconterò una vecchia storia di un antico regno che viene tramandata da noi sacerdoti erranti sperando che vi piaccia-.
- Certamente- rispose il cavaliere che aiutò il Sacerdote a montare sul cavallo – intanto permettetemi di presentarmi, io sono Thair, primo esploratore dell’Arciduca di Rhone-.
- Lietissimo, mio signore, io sono Narima di Fronda e come dicevo sono in pellegrinaggio per visitare l’antica cattedrale della città di Rhone-.
Tahir lo guardò e rispose - In verità tempo fa visitai un tempio più antico di quello di Rhone in una città abbandonata, ma visitarlo nuovamente credo sia impossibile. Comunque ora raccontatemi la vostra storia, sacerdote, poiché sono sempre assetato di conoscere il passato e le leggende dei nostri padri-.
- Non capisco bene di cosa parliate, messer Thair, comunque farò quel che posso per soddisfare la vostra curiosità.
La storia che vi narro ebbe luogo durante il regno di Geneddyn VIII, un antico Re del Fencedhor. Geneddyn aveva al proprio servizio numerosi cavalieri, molti dei quali trascorrevano il tempo vagabondando per il regno alla ricerca di avventure.

domenica 14 settembre 2014

Racconti Dimenticati - Kalia e Ferendil

Racconti Dimenticati

Kalia Elvermili i Ferendil Thagor
Stella, figlia di Elvermil e Ferendil Thagor



Il fuoco scoppiettava allegramente nel grande camino circolare al centro della sala comune, il sole era tramontato da qualche ora e l’enorme stanzone era avvolto dalla penombra.
Seduti ad un tavolo, stavano tre elfi ed un uomo.
- Davvero non conosci la storia di Kalia Elvermili?- chiese un elfo un po’ brillo stringendo un boccale di vino speziato fra le mani.
- No, per nulla, vengo da Mitiran e di queste terre so poco e niente- rispose l’uomo con un certo imbarazzo mentre frizionava le mani fra loro per scaldarle e lanciava sguardi sottecchi ad uno degli elfi che aveva evidentemente superato il suo limite con la birra e ora canticchiava uno strano motivetto nella sua lingua natìa. Il terzo elfo era invece completamente lucido e lo guardava con aria greve.
- Ciò che dici mi rattrista, uomo, poiché una storia come quella di Kalia Elvermili non è bene che venga dimenticata né dagli uomini né dagli elfi né da qualunque altra razza che calchi la terra. - soggiunse l’elfo lucido mentre il suo compagno brillo assunse un’aria trasognata fissando il soffitto.
- Ebbene, mi fermerò ancora qualche giorno a questa corte, quindi vi esorto a raccontarmi questa storia per quanto lunga possa essere ed il sonno lo recupererò un altro giorno. - disse l’uomo.
- Si, si, adoro quella storia. - fece l’elfo brillo.
- Siiiiii. - biascicò l’elfo ubriaco che intanto aveva smesso di cantare.
- Va bene ma prima suggerisco di riempire i nostri boccali così da non rischiare di rimanere a gola riarsa ed interrompere la narrazione. - fece l’elfo lucido.
I quattro fecero un brindisi ed ordinarono altre bevande che furono loro servite da una giovane cameriera umana.
- Ebbene correva l’anno 2132 della Vecchia Era. Nel grande Impero dell’Angor l’ascesa al trono di Antior concludeva un lunghissimo periodo di guerre civili che aveva visto opposte le fazioni degli elfisti e degli umanisti; i primi erano sostenitori degli imperatori mezz’elfi mentre gli umanisti li disprezzavano, preferendo sovrani interamente uomini.